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ANCHE UN GARIBALDI COMBATTE' CON I SUDISTI

Guerra civile americana (1861-1865)

 



«La nostra brigata è entrata in battaglia per due volte, la seconda volta sulle barricate del fronte yankee e li abbiamo fatti scappare… Nel combattimento ho trovato una cartella piena di carta da lettere e buste delle quali avevo bisogno e un cappotto di tela cerata, i nostri ragazzi ora hanno una buona provvista di tela cerata». Dalla Virginia scriveva così alla moglie Sarah Poor il sergente John (Giovan Battista) Garibaldi all’indomani della battaglia di Chancellorsville.
Fra le principali e più sanguinose della guerra civile americana (12 aprile 1861 - 9 aprile 1865), quella di Chancellorsville vide la vittoria dell’Armata confederata della Virginia settentrionale comandata dal full general Robert Edward Lee contro l’Armata del Potomac del major general Joseph Hooker.

Per avere un’idea delle collocazioni gerarchiche, annotiamo che nell’esercito italiano Lee sarebbe stato un generale d’armata e Hooker un generale di divisione.

 

 


Le forze unioniste sul campo di battaglia ammontavano a 130 mila uomini e quelle confederate a meno della metà. Vinsero il genio e l’audacia di Lee (il quale, particolare non da poco, pur essendo un convinto abolizionista, aveva rifiutato di comandare le truppe nordiste).
Ma come mai un italiano – con un nome conosciutissimo anche in America - combatteva nelle fila degli schiavisti?
Intanto, va detto che quella guerra non fu uno scontro tra Stati schiavisti e Stati abolizionisti. Tra gli Unionisti, troviamo anche il Delaware, il Maryland, il Nebraska e il Kansas, cioè Stati che ammettevano la schiavitù. Quando il presidente Abramo Lincoln lanciò il 10 gennaio del 1863 il famoso proclama antischiavista, emerse che l’abolizione della schiavitù era valida (nell’ambito di una più generale confisca di beni) soltanto per i “ribelli”, cioè per gli Stati confederati. Non aveva valore negli Stati (Delaware etc.) che ammettevano la schiavitù ma che s’erano schierati sul fronte unionista. Il proclama, inoltre, non aveva alcun valore nei Territori già incorporati nell’Unione come il Tennessee.
Abramo Lincoln era arrivato alla presidenza perché, come scriveva lo storico belga Jacques Pirenne, «di fronte ai democratici divisi, i repubblicani fecero blocco intorno alla candidatura di Lincoln e sul seguente programma: mantenimento delle tariffe produttive, interdizione della schiavitù senza tuttavia abolirla negli Stati dove essa esisteva».
La guerra era scoppiata, dunque, per una faccenda doganale. Pirenne spiegava: «Gli Stati del Nord, sempre più industrializzati, erano più che mai sostenitori del protezionismo doganale al riparo del quale essi contavano di rassettare la loro economia profondamente disorganizzata; gli Stati del Sud erano fautori del libero scambio alla scopo di ridurre il prezzo di costo della loro produzione di cotone e di facilitare così la vendita all’estero».
All’epoca, i democratici erano protezionisti e i repubblicani liberisti. Ulteriore dimostrazione, questa, della volubilità, diciamo così, delle posizioni politiche.
Prima di tornare al combattente sudista italiano, va ricordato che anche le tribù pellerossa parteciparono al conflitto e che in maggioranza si schierarono dalla parte dei Confederati. Alcuni indiani, come i Choctaw, lo fecero perché erano proprietari di schiavi, ma in gran parte perché erano stati deportati e i sudisti avevano promesso di farli tornare nelle loro terre. Essi, i Choctaw,  formarono sette reggimenti di fanteria e una unità di cavalleria, i Cherokee un reggimento di fanteria, una unità di cavalleria e una di artiglieria; i Creek tre reggimenti di fanteria e una unità di cavalleria; i Seminole due reggimenti di fanteria, i Chickasaw quattro reggimenti di fanteria e una unità di cavalleria, gli Osage un reggimento di fanteria.
Più o meno furono 15 mila gli indiani “sudisti” e 4 mila quelli “nordisti”. Due arrivarono al grado di brigadier general (generale di brigata): il capo cherokee conosciuto come Stand Watie (il nome indiano era De-ga-ta-ga “egli sta in piedi”) nell’esercito confederato e il sachem dei Seneca Ely Samuel Parker (Donehogawa, "custode della porta occidentale”) in quello unionista.
I soldati indiani caduti in battaglia furono circa diecimila. I superstiti “sudisti” si trovarono senza risorse e alla mercé di bande di scorridori. A ciò si aggiunse la punizione del governo vincitore, che, va detto, fu equanime giacché trattò allo stesso modo anche gli indiani che avevano combattuto per il Nord.
La tentazione di raccontare alcune delle imprese indiane in quei quattro anni di guerra è forte, ma bisogna tornare al nostro Giovan Battista Garibaldi ed agli italiani che come lui combatterono in divisa americana.
L’epopea ebbe inizio il 15 ottobre del 1860 con l’arrivo a Napoli della “legione britannica” in supporto a Garibaldi (Giuseppe). L’anno seguente uno degli ufficiali, il capitano Bradford Smith Hoskiss, alla notizia dell’elezione di Lincoln, ebbe dal console americano Joseph Chandler il permesso di portare in America soldati reclutati tra i prigionieri di guerra borbonici.
Il governo piemontese fu ben felice di liberarsi di gente che rifiutava di riconoscerne la legittimità e Hoskiss riuscì a sbarcare qualche migliaio di “napoletani” a New Orleans, prima che le navi nordiste ne bloccassero il porto.
Con i borbonici furono creati battaglioni e reggimenti come il reggimento di Italian Guards e la Garibaldi Legion (che, però, diventò Legione Italiana dopo le proteste dei soldati ai quali quel nome ricordava la fine del Regno delle Due Sicilie). Di italiani, comunque, se ne contavano in quasi tutti i trenta reggimenti della Louisiana. Combatterono con valore e le perdite furono notevoli.
Raccontando della lunga (durò dal 30 aprile al 6 maggio 1863) battaglia di Chancellorsville, John Garibaldi scrisse alla moglie: «Ci hanno caricato molte volte sabato sera, ma sono stati sempre respinti e noi quella notte abbiamo catturato una brigata intera facendo prigionieri i generali… Dei 2.200 della nostra brigata, ci sono stati 612 tra morti e feriti e dei circa 35 della nostra compagnia, ci sono stati 9 tra morti e feriti…».

Il sergente Garibaldi combatté in molte battaglie nel 27° reggimento di fanteria della Virginia e quando morì, in riconoscimento dei suoi meriti, fu sepolto a Lexington a poca distanza dalla cappella dedicata al generale Lee e non lontano dal sepolcro del generale Jackson.
Il sudista italiano erano nato a Lavagna, in provincia di Genova, il 30 aprile 1831. Sbarcato in America a vent’anni, a 30 s’era arruolato nella fanteria virginiana.
Fatto prigioniero alla prima battaglia di Kernstown (23 marzo 1862, la seconda fu combattuta il 24 luglio 1864) venne rinchiuso a Fort Delaware sul fiume al confine fra New Jersey e Pennsylvania e fortunatamente (in quella prigione morirono di stenti circa 2.500 sudisti) fu liberato 5 mesi dopo per uno scambio di prigionieri.
Fu di nuovo rinchiuso a Fort Delaware dopo la battaglia di Spotsylvania (combattuta dall'8 al 21 maggio 1864) e per la seconda volta ne uscì dopo 5 mesi per uno scambio di prigionieri. Finita la guerra lavorò come insegnante e contadino e morì l’8 settembre 1914.
Le sue lettere e altre notizie sono nell’archivio del Virginia Military Institute (http://archivesspace.vmi.edu/repositories/3/digital_objects/146). Tra i tanti siti che raccontano degli immigrati nella guerra civile americana, due sono particolarmente interessanti: su uno (http://www.civilwarhome.com/italian.html) sono citati soltanto gli italiani di New York che militarono per l’Unione e su un altro (http://civilwartalk.com/threads/italians-in-civil-war.112192/) c’è più attenzione ai soldati borbonici.
Una sottolineatura curiosa se la merita il Comune di Lavagna. Sul web, l’ammistrazione cita molte persone degne di nota. C’è Alessandro Curotto, un ex calciatore, c’è Angelo Brizzolara, un imprenditore, c’è una showgirl, tale Fanny Cadeo, e c’è una partigiana, tale Vera Vassalle. Tra decine di nomi “illustri” non trova posto, però, Giovan Battista Garibaldi.
È senz’altro una dimenticanza. Anche il più maligno mai potrebbe pensare ad una damnatio memoriae soltanto perché quel lavagnese fu un combattente sudista.