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UN'AVVENTURA EUROPEA PRIMA PARTE

di Giovanni Pucci

 

Avanzando lentamente tra agavi spinose e sotto un sole ferale alla testa di qualche centinaia di soldati spagnoli, che ciondolando e imprecando per la fatica penetravano in una terra mai calcata prima dal nessun uomo bianco, Hernan Cortes aveva in mente una sola cosa. Sarà questa lucida e chiara volontà, perseguita nonostante le alterne vicende, i consigli contrari e le suppliche inverse di alcuni dei suoi uomini, che lo porterà a concretizzare il suo obbiettivo, tanto ambizioso da essere irrazionale: la conquista del Messico.
Questo scritto vuole analizzare fatti già ampiamente rilevati e discussi da altri assai più illustri (come T. Todorov e W.H. Prescott) mettendoli però in una luce diversa, abbozzando così per suggestioni e spunti una figura, quella del Conquistatore, che fu molto di più che un brutale distruttore di civiltà aliene.

Cortes conquistatore di spagnoli
La prima questione: come operò Cortes in quello che fu il suo campo? Ambizioso e lucido sin dall'inizio si fece nominare capo spedizione dal governatore di Cuba, Diego Velazquez, dopo anni passati ad amministrare un latifondo sull'isola che farà parte della Nuova Spagna. Si sentiva chiamato a qualcosa di più grande ed infatti ebbe ad esclamare: "non sono venuto fin qui per coltivare la terra!". La missione che Cortes volle ardentemente comandare, tanto da impegnare tutti i suoi averi e da indebitarsi per finanziarla, non fu la prima bensì la terza; sulle sponde del Messico si erano già avventurati sia Hernandez de Cordoba prima che Juan de Grijalva poi. Quest'ultimi però non avevano combinato granchè: intenzionati solo ad accaparrare il più velocemente possibile tutto l'oro che riuscivano a trovare, non s'interessarono di nient'altro, né delle popolazioni indigene, né del loro ordinamento o organizzazione sociale e né della geografia del Nuovo Mondo. Avevano in mente solo un guadagno immediato e facile. I radi incontri con gli abitanti autoctoni furono farseschi ed imbarazzanti. Un aneddoto in tal senso è emblematico: sprovvisti di un interprete, gli spagnoli parlavano agli indiani ovviamente in castigliano. Sentendosi rispondere 'ma c'ubah than' (non comprendiamo ciò che dite) capirono Yucatan e ne dedussero che doveva trattarsi del nome della penisola, penisola che porta tuttora quel nome! Se minacciati o in inferiorità numerica, gli spagnoli non esitavano a fuggire, incuranti dell'impressione che suscitavano negli indiani. Cortes avrà tutt'altro approccio. Non si accontenterà di piccole o grandi quantità d'oro, la sua volontà sarà sempre quella di prendere il Messico. Si può dire che il primo mattone della conquista del Messico lo pose quando iniziò a pensarla. Era talmente determinato che una volta sbarcati fece incagliare le navi; con tale atto mise i suoi uomini di fronte ad una prospettiva senza alternative: o vittoria totale o morte. Un mesto ritorno a Cuba non era contemplato. Tale mossa rischiosa si rivelò vincente. Coloro che non erano ancora stati totalmente persuasi dalla focosa oratoria del comandante legarono il loro destino a filo doppio con il suo. La diserzione voleva dire affrontare da soli l'ignoto di terre sconosciute, abitate da cannibali o da orrori ancora peggiori...

Se il primo mattone fu il pensiero, il secondo fu l'azione che dal pensiero doveva scaturire. Partito da Hispaniola il 18 novembre del 1518 in fretta e furia poiché aveva saputo che Velazquez voleva togliergli il comando della spedizione, (Cortes intendeva quindi metterlo davanti alle cose fatte) sbarcherà sulle coste dello Yucatan nell'aprile dell'anno successivo con 700 uomini circa e 16 cavalli al seguito. Con quell'esigua forza iniziale sottometterà un impero di milioni di abitanti. Il primo scontro con gli indi fu decisivo e questo Cortes lo sapeva perfettamente: se gli spagnoli, in nettissima inferiorità numerica e su un terreno sconosciuto, avessero vinto, sarebbero stati avvolti da un'aura di invincibilità e il loro morale sarebbe stato galvanizzato. Al contrario se avessero perso, gli indi inizialmente timorosi verso quegli esseri così strani, che dominavano il tuono e che sembravano tutt'uno con bestie mostruose (i cavalieri e le loro cavalcature), si sarebbero resi conto della vulnerabilità degli spagnoli. In breve dovevano assolutamente vincere quella prima battaglia e la vinsero. Nel bottino di quella vittoria ci fu anche la Maliche, giovane azteca che si rivelerà letteralmente imprescindibile per i propositi di Cortes, come vedremo in seguito.
Tutte le sue vittorie militari furono sempre accompagnate da una legittimazione politica, senza la quale sarebbero state molto probabilmente state vane: conscio che il governatore di Hispaniola gli avesse ritirato la fiducia e quindi fosse strictu sensu un disertore che agiva in modo autonomo, Cortes starà sempre attentissimo ad anteporre ad ogni sua mossa e vittoria la gloria della Corona, in nome della quale stava agendo e non reciderà mai il rapporto con Carlo V, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero, che informava puntualmente con missive. Cortes oltre che da Velazquez sarà osteggiato anche da altri personaggi gravitanti negli ambienti regali invidiosi dei suoi successi. Dopo varie e tormentate inchieste contemporanee e successive alla caduta dell'impero azteco e alla fondazione del Vicereame della Nuova Spagna Cortes vedrà riconosciuti i suoi meriti ed adeguatamente ricompensato dall'imperatore. Un continente vergine e ricolmo di ricchezze era un dono troppo grande per formalizzarsi sul modo nel quale era stato ottenuto.
Oltre ad un indubbio valore militare che lo portava sempre ad occupare il suo posto nella mischia e a soccorrere i sottoposti che vedeva in difficoltà, Cortes era dotato di una tempra fisica che gli faceva sopportare in silenzio le tremende traversate sotto il caldo asfissiante, il tormento degli insetti e le marce forzate. Consapevole dell'importanza della sua reputazione presso le truppe, coglieva ogni occasione per mostrarsi un soldato tra i soldati. Il suo ascendente era continuamente alimentato dai turni di veglia che faceva ugualmente ai militi e dal rancio che non differiva da quello dei suoi camerati. Gioviale e scherzoso quando il momento lo permetteva esigeva però una disciplina ferrea e faceva pagare con la massima pena ogni disubbidienza ai suoi ordini. D'istruzione media era un profondo conoscitore di uomini, capace di far vibrare la corda giusta al momento giusto, di rimproverare, rabbonire o di esaltare gli animi a seconda delle circostanze.
Le occasioni nelle quali El Conquistador dovette far ricorso a tutto il suo carisma furono numerose: nella guerra contro la fiera repubblica di Tlascala, che portò numerose perdite negli spagnoli ma anche il più formidabile alleato militare che trovarono in terra messicana, nella decisione di puntare dritto verso la capitale dell'impero azteco, Tenochtitlán, nonostante fosse evidente a tutti dal grado di civiltà delle città che s'incontravano che non si stava più parlando di semplici selvaggi, ma di un'organizzazione statuale con un esercito professionista di centinaia di migliaia di guerrieri, nella lotta contro i suoi connazionali guidati da Narvaez e mandati da Velazquez per fermare Cortes, nella ritirata della noche triste ma sopratutto nella scelta di non abbandonare il suo progetto neanche dopo quella terribile disfatta ma di riorganizzarsi per portare a termine la conquista finale e definitiva. In tutti quei momenti Cortes ritornò sempre alla convinzione di essere chiamato a fare l'impresa e se in tale convincimento non fu estranea l'adesione alla fede cattolica (come ogni spagnolo del suo tempo era religiosissimo) che doveva trionfare sull'idolatria e su culti di sangue chiaramente ispirati dal Diavolo, è comunque decisiva l'impostazione dell' homo faber fortunae suae, ovvero dell'individuo che forgia da sé il suo destino, tanto più speciale e sopra la media tanto più è grande l'opera che è chiamato a fare.
Cortes conquistatore di indiani.