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LA BATTAGLIA DI NONZA DEL 1768

 

Giacomo Casella, l’uomo
che tenne in scacco i Francesi

«Mirate agli ufficiali e sparate a colpo sicuro…. Non sprecate polvere e pallottole…. Voialtri al cannone, puntatelo verso quel gruppo di cavalieri in fondo…Sergente, tieni a freno i tuoi uomini e state pronti per la sortita». Al riparo di un merlo in cima alla rocca, gli ordini del capitano della milizia paolina Giacomo Casella piombavano giù come staffilate sui 1.200 soldati e ufficiali francesi schierati sotto le mura della Torre di Nonza. Al loro comando c’era uno dei generali più attivi nella guerra per la conquista della Corsica, il maresciallo di campo conte di Grandmaison.
Il conflitto durava da quattro anni, da quando cioè, nel 1764, la Repubblica di Genova aveva chiesto aiuto a Luigi XV re di Francia. I Genovesi, padroni della Corsica, ne erano stati cacciati nel 1755 da un’insurrezione guidata dal generale Pasquale Paoli. L’indipendenza della Repubblica Corsa durò 13 anni: finì con la battaglia di Ponte Nuovo.


In quella guerra d’indipendenza avevano combattuto anche Carlo Maria Buonaparte, avvocato laureatosi a Pisa, e la moglie Maria Letizia Ramolino. Il 9 maggio del 1769, la Corsica diventò francese; conclusione, questa, per niente inedita a causa dell’antico costume italico di risolvere problemi interni invocando interventi stranieri. Circa tre mesi dopo la cessione dell’isola da Genova a Parigi, e precisamente il 15 agosto, nacque Napoleone. La madre aveva dunque combattuto mentre era incinta del futuro imperatore dei francesi.
L’eliminazione del caposaldo della Torre di Nonza era una tappa obbligata nella campagna di conquista francese. L’abitato, un comune d’una ottantina di abitanti, è ancora oggi abbarbicato su una roccia a picco ad Ovest di Capo Corso, penisola nel Nordest dell’Alta Corsica, e l’antica torre domina il golfo di St Florent quasi i secoli non fossero passati.
In quel 1768, era sotto il comando di un vecchio soldato. Il corpo segnato dalle cicatrici, s’appoggiava ad una stampella perché la gamba destra dal ginocchio in giù era un troncone di legno. Lo chiamavano Capitan Gambadilegno, ma le cronache non dicono se lui s’offendesse per quel soprannome. Era di Corte, una cittadella fortificata dell’interno eretta a capitale negli anni della Repubblica Corsa. Casella aveva combattuto per l’indipendenza contro la Repubblica di Genova e ora contro le truppe del re di Francia.
Non appena s’era saputo della colonna francese in avvicinamento, il capitano disse ai quattro uomini di guarnigione: «Abbiamo parecchi moschetti, un cannone e molti barili di polvere. Combatteremo finché sarà possibile e quando i francesi saranno entrati faremo saltare in aria la torre».
I quattro non fiatarono, ma nessuno di loro voleva morire come Sansone sepolto sotto il palazzo insieme con i Filistei. Avevano sempre combattuto con lealtà e coraggio ma suicidarsi era tutt’altra faccenda, per cui nottetempo abbandonarono la torre.
All’alba, Giacomo Casella scoprì di essere rimasto solo. Muovendosi con tutta la rapidità possibile con una gamba di legno, sistemò i moschetti in modo che spuntassero minacciosi dalle feritoie e dagli spalti, posizionò il cannone sul lato che s’affacciava sulla strada che avrebbero dovuto percorrere gli assalitori e infilò le micce nei barili. A differenza delle torri solitamente circolari, quella era a pianta quadrangolare con merlature, caditoie e parapetti.
Soddisfatto per come aveva sistemato le cose, s’accese la pipa e si sedette in attesa.
I Francesi arrivarono in paese con gran fracasso e gli abitanti si arresero senza nemmeno tentare la fuga. Una pattuglia partì in avanscoperta e fu accolta a fucilate. Il maresciallo di campo seppe così che la torre era difesa da una guarnigione decisa a combattere.
Quella torre era l’ultimo baluardo di resistenza e doveva cadere, ma il conte Grandmaison aveva già visto quanto fossero ostinati i corsi che decidevano di resistere. Prima di comandare un assalto che gli sarebbe costato altre perdite, decise di provare a trattare. L’esito dello scontro era scritto nei numeri. Date le dimensioni della torre, si poteva ragionevolmente supporre che dentro non ci fossero più di una cinquantina di combattenti. Il rapporto di forze era all’incirca di 25 a 1 a favore dei Francesi e per il comandante corso arrendersi non sarebbe stato disonorevole mentre la morte sua e dei suoi sarebbe stata del tutto inutile.
Grandmaison mandò un parlamentare a discutere le condizioni della resa.
All’avvicinarsi dell’ufficiale protetto dalla bandiera bianca, capitan Casella ordinò il cessate il fuoco e s’affacciò al parapetto per ascoltare le proposte del nemico.
«Il mio generale – esordì l’inviato del conte – vuole evitare un inutile spargimento di sangue ed è pronto ad ascoltare le vostre condizioni per una resa».
Alla fine delle trattative, sulla cui durata le cronache tacciono, i Francesi s’erano impegnati a riconoscere agli assediati l’onore delle armi, a consentire che portassero via bagagli e bandiere e a mettere a disposizione i cavalli necessari per il trasporto del cannone.
Schierato il picchetto d’onore, la porta della torre si aprì e ne uscì il capitan Casella con pistole alla cintura, sciabola, pugnale e fucile a tracolla. Impettito, passò zoppicando davanti ai soldati irrigiditi nel presentatàrm. Passarono i minuti senza che dalla torre uscissero altri.
Quando gli fu chiesto: «Perché i vostri soldati non escono?», Casella rispose: «Dentro non c’è nessuno».
La rivelazione fece infuriare la truppa e soprattutto l’ufficiale che aveva concordato le condizioni di resa. La presa in giro era insopportabile e quel vecchio sciancato la doveva pagare. Casella sguainò la spada pronto a difendersi. Poco distante, il generale aveva visto, sentito e apprezzato quell’irriducibile guerriero e ordinò di non toccarlo. Gli si avvicinò, gli strinse la mano e l’affidò ad una scorta per farlo arrivare incolume all’accampamento di Pasquale Paoli.
Dopo quel giorno, non si hanno più notizie di Giacomo Casella. Grazie al coraggio di tanti combattenti come lui, in Corsica l’italiano restò la lingua ufficiale fino al 9 maggio del 1859, esattamente novant’anni dopo la conquista francese.

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