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Ferruccio Ferrucci

Il condottiero che scalava le mura

e menava coltellate

 

«…fui forzato a far di quelle cose che non erano l’offizio mio; e così imbracciai una rotella, e dando coltellate a tutti quelli che tornavano indietro, finalmente saltai in su quel riparo con una testa di cavalleggieri a piedi armati di tutte arme, con una picca in mano per uno, insieme con alcune lancie spezzate che io ho appresso di me; ed insignoritici del riparo, cominciammo a spingerci innanzi, e guadagnammo la piazza e l’artiglieria con grande uccisione di loro, togliendo loro due insegne, e vi morì un capitano; e così ci volgemmo a combatter casa per casa tanto che c’insignorimmo del tutto. La notte ne sopravvenne, nè si potette andar più avanti, ed eravamo in modo stanchi che nessuno poteva stare più in piedi. Feci tirar quella tanta artiglieria che avevo lor tolta sotto la fortezza, e metter le sentinelle, e lasciai a guardia della piazza…».


Lo scriveva il condottiero Francesco Ferrucci in una lettera che annunciava alla Repubblica di Firenze la presa di Volterra il 27 aprile del 1530.
Il “commissario generale di campagna delle genti dei Fiorentini” aveva 41 anni quando, andando all’attacco in prima persona (anche se non era “l’offizio” suo) aveva ripreso la città che s’era accordata con il Papa a ridosso della doppia incoronazione di Carlo V d'Asburgo (il 22 febbraio la corona ferrea e il 24 quella del Sacro Romano Impero) nella basilica di San Petronio a Bologna.
Ad incoronarlo era stato Papa Clemente VII, un figlio naturale di Giuliano de’ Medici che aveva deciso di restituire il dominio di Firenze alla propria famiglia (i Medici erano stati cacciati tre anni prima).
Dopo il “sacco di Roma” (11 maggio 1527) il Papa s’era convinto ad abbandonare gli alleati (Francia, Inghilterra, Venezia, Milano…) che non erano riusciti a fermare i lanzichenecchi dell’Asburgo e ad accordarsi con l’imperatore chiedendo ed ottenendo l’aiuto militare per la riconquista di Firenze.
Prima che cominciasse l’assedio della città, un ex combattente delle “Bande Nere”, Francesco Ferrucci, era stato mandato dalla Repubblica a rafforzare le difese di Empoli.
Secondo una descrizione dell’epoca, il “commissario” era «uomo di alta statura, di faccia lunga, naso aquilino, occhi lacrimanti, colore vivo, lieto nell'aspetto, scarzo nelle membra...».
Nel corso delle guerre rinascimentali, le “Bande Nere” avevano rappresentato il meglio della strategia e della tattica militare che i tecnici definiscono per l’appunto “all’italiana”. Erano truppe leggere, in gran parte composte da archibugieri, imbattibili nella guerriglia e nei colpi di mano.
Francesco Ferrucci era entrato a 38 anni nelle “Bande nere” fino al loro scioglimento, a fine agosto del 1528, dopo la disastrosa campagna contro il regno di Napoli, nella quale era stato anche fatto prigioniero.
Pagato il riscatto e rientrato a Firenze, fu al servizio della città svolgendo incarichi di fiducia fino all’attacco delle truppe imperialpapaline. I “Dieci di balìa”, la magistratura straordinaria per la guerra, lo mandarono a Empoli come commissario con pieni poteri militari. Quella città era fondamentale per il sistema difensivo della Repubblica e ci voleva un combattente come Francesco Ferrucci per non farla cadere nelle mani di Clemente VII.
Al principio, il condottiero rafforzò le mura con bastioni e terrapieni nei punti più agevolmente aggredibili da parte del nemico. Allo stesso tempo, varò un intenso programma di addestramento per poter disporre di truppe efficienti e disciplinate. Le lettere che inviò in quel periodo ai Dieci contenevano richieste di armi e munizioni e di soldi (per pagare i soldati e le spie che aveva disseminato sul territorio).
Verso la fine di ottobre di quel 1529, diede il via ad una serie di scorrerie con il duplice scopo di disturbare le manovre delle truppe nemiche e di recuperare qualcuna delle località che erano passate con il Papa. Così riprese, per esempio, Castelfiorentino.
Il mese seguente organizzò una spedizione per riprendere San Miniato al Tedesco. Alla testa di 400 fanti e un manipolo di cavalieri, Francesco Ferrucci andò all’assalto delle mura con l’energia di un ventenne. Fu tra i primi a scalarle e ad impegnare combattimento con il nemico nei vicoli dell’abitato.
Il piano strategico era lineare: avere il controllo del Valdarno in modo da alleggerire notevolmente la pressione nemica su Firenze.
L’impegno del combattente, però, raramente viene premiato da chi detiene il potere politico. Nella stragrande maggioranza dei casi, il politico tradisce il soldato. In effetti, si tratta di due impegni tra loro incompatibili per definizione. Ecco perché quando capita che l’uomo d’arme sia anche un politico o viceversa, si realizzano grandi imprese. Gli esempi più folgoranti sono sotto gli occhi di tutti (da Alessandro Magno in poi) ed a maggior ragione insorge la rabbia quando un Ferrucci non soltanto si vede negati i rinforzi richiesti per mettere in sicurezza tutta la Valle dell’Arno (aveva organizzato spedizioni fino a Certaldo) quanto e soprattutto è costretto ad indebolire le proprie forze per mandare soldati a sostegno di Pisa e Fucecchio.
In poco tempo, questa insana strategia bellica dei Dieci diede mortali frutti. Il “commissario” si vide costretto a sospendere attacchi e spedizioni (ad un certo punto dovette anche pagare i soldati di tasca propria) e il nemico ne approfittò per riguadagnare il terreno perduto. Le astuzie e i “trucchi” imparati nel corso della militanza nelle “Bande Nere” consentirono di portare a segno qualche colpo di guerriglia, ma fu fatto a pezzi il disegno del controllo della Valdarno.
Caddero in mano nemica San Miniato, Pomarance e Montecatini. A Volterra, la popolazione aveva aperto le porte agli imperialpontifici e la guarnigione, asserragliata nella fortezza, non avrebbe potuto resistere all’infinito. Finalmente i Dieci si resero conto di dover cambiare strategia e inviarono al “commissario” cinque compagnie di rinforzo con l’incarico di riconquistare Volterra.
Ferrucci lasciò una forte guarnigione in Empoli e al comando di 2.000 fanti e 150 cavalieri si abbatté su Volterra come un improvviso uragano. Il commissario pontificio ebbe appena il tempo di rendersi conto dell’assalto che già i soldati della Repubblica s’erano sparsi per le vie della città. A notte finì ogni resistenza e i volterrani si arresero per evitare il peggio.
Ferrucci non perse tempo. Sapeva che il nemico non si sarebbe rassegnato e sarebbe andato al contrattacco quanto prima, perciò fece rafforzare le difese con opere in muratura e distribuì i soldati in modo da evitare di essere preso di sorpresa come lui aveva sorpreso le milizie pontificie.
Ma ora era in pericolo la stessa Firenze e i Dieci lo richiamarono affinché attaccasse gli assedianti alle spalle in contemporanea con una sortita generale. Ferrucci andò a Pisa da dove contava di ripartire con una forte schiera di fanti e cavalieri. Ma le ferite riportate nei precedenti combattimenti e una forte febbre lo bloccarono a letto fino alla fine di luglio. Quella lunga sosta forzata consentì al nemico di organizzare una vera armata per arrestare la sua avanzata.
E ci fu la conclusione diventata leggendaria («Maramaldo, tu uccidi un uomo morto»).
Donato Giannotti, il segretario dei Dieci che aveva occupato il posto che era stato del Machiavelli, l’uomo che aveva messo Francesco Ferrucci a capo della spedizione che per poco non era riuscita a spezzare l’assedio di Firenze, tempo dopo scrisse che «ogni cittadino che abbia nelle altre cose prudenza si può intendere della guerra ed amministrarla molto meglio e con maggior frutto pubblico che qualunque altro capitano mercenario» e, ricordando il condottiero ucciso a Gavinana, riconobbe che «ha mostrato più perizia nell'arte della guerra che qualunque altro capitano de' tempi nostri».
 

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