TOJO. IL SACRO E L’AZIONE
Francesco Cobe
da www.noreporter.org di martedì 30 e mercoledì 31 agosto, giovedì 01 e venerdì 02 settembre 2016
Premessa sull’Estremo Oriente e il Fascismo nipponico
Non si intende, ricordando il generale Tojo, confrontarsi con le varie correnti storiografiche che hanno, nel dopoguerra, affrontato la tematica del Fascismo nipponico. Ciò perché il debito di queste correnti (anche di quelle liberali o conservatrici) verso il metodo di analisi marxista è indubbio e finisce per creare equivoci e confusioni di ogni sorta. Non si può negare che in moltissimi ambiti il metodo marxista, se rigoroso, è senz’altro valido; ma mostra ad esempio indubbie contraddizioni quando si sofferma ad esaminare fenomeni in primo luogo “ideali” come l’ascesa napoleonica ed il Fascismo. La tesi marxista del modo di produzione asiatico è stata poi fortemente contrastata con solidi argomenti da varie scuole economiche. Come mostrato da Vittorio Volpi in almeno cinque fondamentali testi, la categoria del “capitalismo giapponese” è fallace ed errata per il dopoguerra; figurarsi quanto possa essere esatta per il Giappone degli anni ‘30 e ‘40, nonostante sia usata disinvoltamente da studiosi del fenomeno, come Gatti e seppur in parte Mazzei.
Ricordare Tojo è solo tentare di avventurarsi nel ricordo dello spirito del Nipponismo fascista ed anche comprendere quali strade si stanno aprendo, in Asia, anche per noi.
Inoltre: nella parte III e IV si estende la ricerca sulla visione “asiatista” di Tojo Hideki alla dinamica di forze e frazioni strategiche successiva al 02 settembre 1945.
La Grande Divergenza tra Occidente e Oriente (Pomeranz), il colonialismo forzato e la discriminazione globale angloamericana e francese verso i popoli asiatici crollava come neve al sole nel giro di appena un decennio solo grazie al fascista Tojo Hideki e alla sua eroica “decisione”. Si possono fare mille distinguo e mille puntualizzazioni ma non cambieranno la centralità dell’Evento.
Anche qui, giova sottolineare che solitamente le analisi “geopolitiche” di tendenze o intellettualità della destra radicale o della sinistra “antagonista” sul Giappone contemporaneo sono veramente fuorvianti. Con una logica schematica (il classico e occidentalissimo “o o”, che fallisce quasi sempre quando usa tale metodo per comprendere l’Oriente estremo) che fa più appello al fideismo dogmatico che all’oggettiva e portante relazione di forza dell’epoca contemporanea, in cui il conflitto realmente asimmetrico e multiforme ha significato molto spesso, nell’ultimo decennio, attacchi radicali e sconvolgenti portati su un piano di “guerra non convenzionale”, si è portati ad immaginare fronti geopolitici e militari contrapposti, come si fosse nel 1812 o nel 1941. In base a questa rappresentazione fideistica, priva di eccessivi riscontri, il Giappone sarebbe parte essenziale dell’imperialismo americano nell’epicentro asiatico. Purtroppo per l’Italia, che non ha saputo o voluto seguire l’esempio nipponico post-‘45, il Giappone è stata invece la dimostrazione effettiva di un paese che non solo ha saputo ri-conquistare la sovranità e l’indipendenza, ma che ha saputo anche imporre agli Usa ed ai cinesi una relazione strategica su base paritaria. Lasciandosi così alle spalle quasi tutte le altre nazioni, per le quali la relazione strategica con gli Usa e con la Cina è sempre ineguale: UE e Russia incluse, dato che la prima è economicamente potente ma debolissima politicamente e militarmente, la seconda più assertiva sul piano politico-militare è invece talmente arretrata sul piano sociale e economico al punto da dipendere molto più di quanto si possa credere da precisi gruppi finanziari “occidentali” o “est-europei” e di ciò ne risentono, evidentemente, anche le scelte politico-militari.
Saggiamente, Gabriele Adinolfi in un articolo del marzo 2016 portava l’esempio del popolo giapponese come entità attiva capace di risollevarsi e avanzare tra le macerie, a dispetto di una destra presunta radicale che non fa che additare quali punti di riferimento paesi dove l’antifascismo è un dogma di stato, la storia consolidata sugli eventi del XX secolo è quella stessa degli angloamericani (con tanto di pesanti divieti penali nel metterla in discussione), la pratica sociale consolidata è totalmente oligarchica, plutocratica ed anti-popolare come nei paesi angloamericani.
Con questo, anche per non cadere nella medesima unilateralità, si precisa come mediante questa ricerca non si voglia proporre l’esempio del Giappone come “paradiso in terra”: tutt’altro. Non è questo il fine, né ci sarebbe motivo per essere attratti da un eventuale paradiso terrestre. Fisima messianista e fideistica di ascendenza marxista o capitalista, palese violazione per chi coltiva l’ideale dell’Ordine spirituale di cui Eraclito forniva nei secoli la più profonda e concreta immagine.
Il Giappone non è questo, non lo può nemmeno essere… ma pare avere uno spirito combattivo sempre presente. Uno spirito che rimane nipponico, nonostante una guerra planetaria, la più violenta e terribile della storia, e i tentativi - probabilmente falliti - di americanizzazione imposta, di democratizzazione forzata, di congelamento sociale tramite la auspicata diffusione di una cultura oligarchica in luogo della tradizionale forza nazionalpopolare, solidaristica e comunitaria. Lo spirito di una civiltà che “ha saputo resistere alle bombe, al fuoco, alla cenere, e lo ha fatto con i denti e con le unghie, con i fuorilegge, con la Yakuza, le puttane, il gioco d’azzardo, i ladri, gli assassini, con tutti quanti i figli del disastro…” (M. Vattani, Doromizu, Milano 2016, pag. 324).
C’è un punto, di sicuro fondamentale, che differenzia il modello Giappone ed in parte quegli stessi paesi che a quel modello si sono ispirati: Repubblica di Corea oltre le costanti polemiche antinipponiche, Singapore, Malesia, in parte la stessa Repubblica di Cina-Taiwan. Nazioni in cui, l’Impero svolgeva durante la Seconda Guerra Mondiale o prima il ruolo di precursore dell’industrializzazione e della rinascita dell’Asia.
Tale punto, il centro della circonferenza chiamata ‘900 - almeno secondo Ernst Jünger e Martin Heidegger, oltre la differente Weltanschauung tra i due - è il Modernismo Reazionario, è il tentativo radicale, strategico, quanto meno, di padroneggiare il livellante materialismo sub-naturale della Tecnica, cercando di sperimentare nel modernismo un’occasione unica di crescita spirituale dell’uomo piuttosto che di atomizzazione verso l’abisso, come è invece avvenuto in Occidente. Va considerata al riguardo una rilevante distanza con l’Occidente: in Giappone non c’è stata una rivoluzione borghese e il Sol Levante poteva dunque fare il suo ingresso nella politica mondiale e nella modernità con uno spirito originario-avito che balzava sì in una nuova sfera, in una dimensione nuova; ma lo spirito resisteva e si trasformava, senza smarrirsi come avveniva in un Occidente in preda ad un materialismo abissale. Secondo la tradizione confuciana, i mercanti (in genere ricchi ma socialmente disprezzati) - i nostri “borghesi” - costituivano l’ultimo gradino della stratificazione sociale. Economicamente, del resto, tuttora lo si vede, la “mano visibile” ha ruolo dirigente sulla fazione di mercato: dunque l’ideologia nipponista dominante rimane assolutamente antimercatista e nei momenti di crisi e bisogno prevale regolarmente, a livello sociale, la norma corporativistica e comunitaristica derivata dall’ittaikan: senso di assoluta unità e totalità.
“Siamo in pericolo ma siamo giapponesi: o ci salviamo insieme sino a rinascere o moriremo tutti…”.
Vi sono tragiche e dolorosissime contraddizioni del caso, che non è certo intenzione di chi scrive lasciare in secondo piano o negare: ne sia esempio l’eccesso di feticismo della merce raggiunto negli anni ‘80 ma poi a prima vista superato; e si dica pure però che quanto hanno fatto vedere e ci stanno facendo vedere i multimilionari “russizzati” o “cinesi” finisce per giustificare i giapponesi degli anni ‘80…
Rimane al di là di questo il fatto evidente che la cultura nipponica contemporanea ha saputo conciliare la pratica dei diritti individuali nell’oggettività verticale dell’originario comunitario, ha saputo rispedire al mittente la richiesta di impiantare in loco una democrazia angloamericana per continuare di contro una corporate governance dove elementi democratici, ma effettivamente popolari, finivano per convivere con la tradizionale meritocrazia gerarchica di stampo confuciano in un processo dinamico che la Catalano ha recentemente definito, la “reinvenzione del Confucianesimo” del Giappone contemporaneo.
Passando alla Cina, si può tranquillamente affermare che l’unica salvezza per la Repubblica popolare cinese, per non affogare definitivamente nell’assoluta macchinazione di stampo americanistico e nel nichilismo assoluto del depotenziamento morale, sia proprio rappresentata dal seguire anche in tal caso l’esempio del Sol Levante. Quella volontà di “ritornare a Confucio” che sta contrassegnando l’azione della dirigenza Xi Jinping sembra svilupparsi in tal senso, ossia nella volontà di abbandonare un materialismo unilaterale per agganciarsi ad una direzione reazionaria e modernista; il serio rischio è che forse troppo tardi è stata avviata una così necessaria “restaurazione” sul piano dei valori. Tra il Giappone Meiji che si apriva alla modernizzazione e la Cina denghista che ripercorreva una simile prospettiva, vi era una fondamentale differenza di metodo: mentre in Giappone, come poi avverrà in Corea del Sud, a Taiwan ed a Singapore, si cercavano di impedire investimenti esteri massicci, Pechino spalancava le porte agli IDE, creando a tale scopo zone economiche speciali (ZES).
Tornando agli astratti schemi, assai fantasiosi invero, che dipingono un Giappone presunta colonia Usa, in tal caso è veramente utile la ricerca dell’economista marxista Giovanni Arrighi, senza dubbio più “aperto” verso l’ascesa globale della Repubblica popolare cinese che verso quella del Giappone imperiale; nonostante questo però, il suo metodo di analisi è talmente scientifico e onesto da rimarcare in più casi, nelle sue fondamentali opere di taglio economico ma anche politico (soprattutto in quelle uscite negli Usa, non tradotte), che il Giappone partito dopo la resa del ‘45 da una condizione di dipendenza politica ed economica, era però in grado di sviluppare già dai primi anni ‘70 un rapporto di “mutua dipendenza” e di reciprocità strategica con gli Usa, lasciandosi velocemente alle spalle il progetto sia neo-coloniale sia neo-imperialista che Washington aveva preventivato per l’Arcipelago (G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Milano 2008, pp. 380-386).
D’altra parte, anche qui parlano i fatti, più che gli astratti schemi geopolitici.
Una nazione dove decine e decine di migliaia di uomini, donne, bambini, silenziosi, in composta ed ordinata fila, a settantuno anni esatti di distanza da quel tragico 15 agosto 1945, si recano ritualmente a Yakusuni a rendere onore ai caduti della “guerra di liberazione asiatica” (1937-1945) sotto il patrocinio di forze istituzionali e della frazione del primo ministro Abe Shinzo; una nazione che impone a Cina, Stati Uniti d’America, Russia, il proprio ministro della Difesa (03 agosto 2016), non tollerato in quanto “neofascista”, non accettato in quanto non si stanca di ricordare alle tre nazioni alleate nel ‘45 che il Giappone non ha dimenticato i crimini di guerra subiti, non ha dimenticato isole e territori dell’Arcipelago che gli Stati Uniti hanno elargito a russi e cinesi, non ha dimenticato il sacrificio delle guide ingiustamente processate dal Tribunale militare alleato per l’estremo Oriente: una tale nazione, forse, non solo non è stata sconfitta, ma è ben poco americanizzata. È il caso se non altro di analizzare tutto questo, vista anche la misteriosa fratellanza, spirituale e ideale, tra Italia e Sol Levante, che originava il 25 agosto 1866 e che la comune lotta disperata e imperiale, per la sopravvivenza, dall’assalto degli imperialismi planetari incideva definitivamente nello spirito più profondo dei nostri popoli.
Fratellanza che non vorremmo cambiare - e non potremmo, anche lo volessimo - con nessun’altra al mondo.
Scontro tra imperialisti ed imperiali. Volontari cinesi tra i giapponesi
Si entrava così nell’ora solenne, rituale, dell’Azione. Il Fascismo di Tojo finiva per dare un sigillo apocalittico, compiutamente mistico-sacrale ai movimenti nazional-rivoluzionari.
Dopo Pearl Harbor, la guerra diventava mondiale. L’Asia - seconda la retta pre-visione della Fazione di Controllo - era l’effettivo epicentro delle contraddizioni interimperialistiche. Obiettivo di Tojo, come visto, non era l’annientamento degli Usa, come invece cercavano gli angloamericani e russi, sin dal ‘37, sul Giappone. Le motivazioni presentate dal generale all’Imperatore alla riunione di settembre ‘41 lasciavano un’eco duratura:
“Lo scopo della guerra contro Usa, Gran Bretagna, Olanda è di espellere l’influenza di questi tre paesi dall’Asia orientale e di stabilire una zona di autodifesa e di autopreservazione del nostro Impero e di creare un nuovo Ordine nella Grande Asia Orientale”.
Il generale si prefiggeva soprattutto un’azione di alleggerimento strategico verso quelle potenze imperialiste che da altri continenti, Usa o Europa, si erano installate attorno al Giappone. Le operazioni militari giapponesi registravano, all’inizio della guerra, successi strepitosi. Gli afroamericani (http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/08/16/quando-i-neri-americani-tifavano-giappone-contro-lamerica___1-v-131810-rubriche_c343.htm) con i popoli orientali si sollevavano mano a mano che Tokyo avanzava. Per quanto si mistificheranno anche in tal caso, a guerra conclusa, dinamiche e eventi del conflitto, attribuendo al soldato nipponico misfatti d’ogni tipo, l’oggettivo e onesto giudice Radhabinod Pal darà poi una immagine realista di come la stragrande maggioranza degli oppressi asiatici accoglieva tripudiante i soldati del Sol Levante, per i quali era possibile attuare ciò che per un intero continente sembrava da secoli e secoli impossibile.
La necessità dello spazio economico unificato del “grande Giappone”, esteso a Corea e Manciuria, non era una proiezione sciovinista, anche perché l’Associazione imperiale attuava il modello di una nazione multietnica, ma l’omaggio a una ragione strategica di indipendenza continentale.
Il grido di dolore di un’Asia troppo a lungo schiavizzata diveniva ora impulso di Azione metodica, puntuale, strategicamente coordinata dallo Stato maggiore imperiale, il cui principale fine non era vincere, ma integrare la liberazione del continente nella primordiale Armonia dei celesti universi (wa). I giapponesi proteggevano i tesori nazionali delle nazioni occupate; a Singapore, ad esempio, il giorno dopo l’invasione, arrivava in volo da Tokyo un esperto giapponese che si recava immediatamente ai famosi giardini botanici (patrimonio asiatico di rilievo) per organizzare i lavori necessari allo scopo. Il botanico commissionava alcune pregevoli stampe giapponesi della flora e della fauna presenti nei giardini, stampe conservate ancora oggi. Pensiamo, di contro, al saccheggio del museo di Baghdad, compiuto dagli americani. Poco dopo Donald Rumsfeld giustificava immediatamente l’accaduto dicendo, “son cose che succedono”.
Il 08 marzo 1942 le Armate imperiali entravano a Rangoon. Cinesi e inglesi, che affrontavano i nipponici, erano velocemente messi in fuga; il 15 maggio la Birmania era totalmente liberata. Tra i Karen una buona parte accoglieva i giapponesi come liberatori; un’altra fazione, viceversa, ancora gravitante verso Londra purtroppo si opponeva loro.
U Ba Maw, ex primo ministro birmano, designato dai nipponici a guida della nazione, pubblicava dopo la guerra un libro: “Avanzata in Birmania”; vi era larga spazio in questo per un ritratto onesto del soldato nipponico durante la dominazione imperiale delle varie nazioni asiatiche. Il ritratto di un soldato severo, marziale; non mancavano in taluni casi ufficiali brutali e talvolta insensibili, questo è vero, ma rispetto al dominio imperialistico anglosassone dell’Asia, il progresso rappresentato dall’avanzata imperiale era indubbio e chi discuteva ciò in linea oggettiva (nonostante le indubbie eccezioni che possono esservi in qualsivoglia caso), era quasi sicuramente in malafede. In particolare U Ba Maw sottolineava la lealtà e la sincerità del progetto panasiatista del generale Tojo, che veniva presentato in una luce assai positiva.
La diffusione dello slogan di propaganda “Via dall’India” iniziava a diffondersi con ossessiva insistenza nel subcontinente. Poco avrebbe poi potuto fare Gandhi, anzi nulla, se non avesse avuto alle spalle l’eroica lotta dei Tojo, dei Takijiro Onishi, dei Tomoyuki Yamashita e di Yamamoto.
Come nulla, avrebbero poi fatto i nazional-imperialisti vietnamiti - durante la Seconda Guerra Mondiale quasi totalmente allineati con Washington e Mosca - se non avessero avuto le spalle coperte dalla guerra di liberazione nipponica.
Rammentando poi ciò che gli anglosassoni erano in grado di fare per impedire la saldatura tra movimento nazionale indiano e movimento imperiale giapponese. La repressione era giorno dopo giorno più atroce, alle migliaia e migliaia di morti di manifestazioni indipendentiste si aggiungevano circa quattro milioni di morti provocati dalle autorità anglosassoni in Bengala mediante carestia. Il timore, dopo la liberazione nipponica della Birmania, che la bandiera del Sol Levante scuotesse finalmente l’India, portava a così tragiche conseguenze. Si seguiva il metodo della terra bruciata, perfezionato nel Chittagong, vicino al confine birmano, per impedire l’accesso alle forniture da parte dei giapponesi in caso di invasione.
La Repubblica di Cina di Wang Jingwei metteva in campo d’altra parte, diversi volontari asiatici nell’Esercito imperiale. La catastrofica rotta degli Occidentali e l’avanzata nipponica erano ormai destinate a lasciar stabilmente il segno nell’immaginazione asiatica. Si sbriciolava in pochi mesi, grazie all’azione armonica del “Fascismo sacro” del sistema imperiale guidato dal generale Tojo, il falso mito della superiorità dell’uomo bianco angloamericano.
La grande conferenza dei patrioti dell’Asia unificata del novembre ‘43 si teneva a Tokyo, alla presenza dell’Imperatore Hiro Hito; questa vedeva partecipare esponenti dei paesi liberati o alleati dei nipponici. Poneva certamente le basi delle intese panasiatiche del dopoguerra, da Bandung (a cui esponenti giapponesi parteciperanno) sino ai trattati di unificazione economica, che il Giappone tenterà in vari casi nel corso degli anni ‘90 dello scorso secolo di radicalizzare: ma naturalmente la Cina, a cui Tokyo tendeva lealmente la mano, si rifiutava di partecipare, dopo aver potuto usufruire di miliardi di yen dal ministro dell’economia nipponico durante il disastro della Rivoluzione culturale, e gli Usa ne boicottavano la prosecuzione.
Nelle Filippine, Emilio Aguinaldo guidava il processo di liberazione antioccidentale; in Corea emergeva, sotto la guida degli ufficiali giapponesi, il giovane Park Chung Hee, che nel dopoguerra, senza mai rinnegare il modello Tojo, anzi ispirandosi a questo, avrebbe dato avvio ad un processo di modernizzazione e di indipendenza studiati ed ammirati in tutto il mondo, sebbene ne venisse stigmatizzata la matrice “fascista” e corporativa.
In Indonesia emergevano leader nazionalisti come Sukarno, Hatta, Suharto.
Chandra Bose, fascista indiano e amico personale di Benito Mussolini, fondava nelle isole Andamane il governo dell’India Libera. Nel marzo del 1944, l’Esercito Nazionale Indiano entrava finalmente in India, nel Manipur, assediando la capitale Imphal.
Già in precedenza a Singapore l’Esercito imperiale, con i prigionieri inglesi nella veste di attori, girava un film: Gli Ultimi Giorni dell’Impero britannico, che veniva proiettato in tutte le sale cinematografiche dell’Asia liberata.
Da allora non vi sarebbe più stata vittoria capace di porre in una luce di presunta superiorità l’uomo bianco angloamericano. L’ordigno atomico ne avrebbe anzi macchiato perennemente presso ogni popolo della terra il già poco apprezzato senso dell’onore. L’epoca, oggettivamente degna di ammirazione, dei Nelson, del Duca di Wellington, dei Pitt, era probabilmente terminata con la loro stessa dipartita.
La prima parte del programma strategico Tojo, quella per cui il Giappone entrava in guerra, era realizzata.
Incredibile: nonostante, dalla metà del ‘42, si imponeva la disparità assoluta di mezzi e di copertura scientifica, una nazione ed un popolo completamente ignorati dall’Occidente nemmeno un secolo prima, erano stati capaci di mettere in ritirata gli angloamericani.
Il riflusso di marea della guerra del Pacifico avrebbe poi visto gli americani all’offensiva: la sconfitta subita dall’Impero a Guadalcanal risultava determinante. L’autentico “turning point”.
Erano gli imperialisti ad avanzare ora verso l’Impero, puntando direttamente alla conquista totale mediante l’ingresso nel palazzo imperiale di Tokyo: ciò avrebbe significato demolire per l’eternità l’immagine mistica e divina dell’eroismo nipponico, l’essere stesso del valore giapponese (Yamato damashii).
Il generale, assecondando in tal caso il parere di frazioni conservatrici che temevano che la sconfitta degenerasse in catastrofe assoluta per la nazione nipponica, si dimetteva (18 luglio ‘44) ma continuava a essere nella prima linea della difesa del Destino imperiale mediante il suo fidato ministro della guerra, Anami Korechika e mediante il comando supremo.
L’Europa era nel frattempo annientata. Nell’arcipelago, si iniziava ad operare per fronteggiare con ogni mezzo l’alta marea fluttuante della Catastrofe. Onishi, uomo di Hideki Tojo, aveva percepito in quei frangenti che la purezza della gioventù, il tesoro più sacro della nazione, era il soffio irradiante del Vento Divino. La vittoria sugli angloamericani non era mai stata preventivata, nessuno vi credeva realmente sin dal dicembre del ‘41. Ma ora si trattava di impedire l’annientamento di civiltà, quello che stava purtroppo avvenendo in Europa. “Anche se saremo sconfitti, la nobiltà di spirito delle Forze speciali di attacco - Tokkotai - Vento Divino salverà il Giappone dalla Catastrofe. Senza questo spirito, alla sconfitta seguirebbe inevitabilmente la Catastrofe” (Takijiro Onishi).
Il tenente Takamitsu Nishida, ricordando nell’ultima lettera ai genitori con particolare devozione proprio un incontro ufficiale con il generale Tojo, svoltosi più di un anno prima, scriveva prima di compiere l’atto di suprema consacrazione all’Imperatore: “Vado all’attacco tra quattro ore. Sarò splendente tra le nuvole, alla deriva, cadendo per sempre. Questa è la mia ultima lettera. Vostro figlio che vi ama”.
Era quella delle Forze speciali di attacco un’azione sacrale “ierofanica”, senza alcuna finalità di successo o tellurica prepotenza, un’offerta pura agli Dèi per una eterna Pace, onorevole e dignitosa: non una tattica militare.
Massimo Scaligero, di cui si evidenzia la intensità di spunti meditativi sull’anima della cultura del Giappone (http://www.larchetipo.com/2016/08/filosophia/lanima-della-cultura-giapponese/) e sulla stessa filosofia nipponica (http://www.larchetipo.com/2016/07/filosophia/senso-della-filosofia-giapponese/), oltre a smentire la tesi del pensatore giapponese etero-dipendente da Occidente; e quella del popolo del Sol Levante popolo di copiatori; mostrava come l’anima della cultura nipponica fosse irriducibilmente sostanziata di impulso Zen.
Di certo, tornando ad un fenomeno così specifico, particolaristico e nipponico come quello del Tokkotai non si poteva comprendere il sostrato ideologico di una simile operazione senza ricorrere all’essenza shintoista della vita sociale, ma anche a certi motivi spirituali, cultuali ed operativi praticamente nichirenisti e per quanto possa sembrare paradossale, in varie individualità, profondamente e autenticamente cristiani, come si può constatare in talune lettere dei membri delle Forze speciali, come quella di Ichizo Hayashi che scriveva prima dell’ultimo volo: “Noi viviamo nello spirito di Cristo e moriamo in quello spirito. È l’ora di morire. Io non vado a cercare le ragioni di questa morte: la mia unica ricerca è volta al bersaglio nemico contro il quale mi schianterò”.
Ma allo stesso tempo, non si poteva più ignorare l’acclarato fatto che la Fazione Tojo capace di militarizzare un’intera generazione sul fondamento abissale del Sacro primordiale era, secondo i suoi principali esponenti, una fazione nipponista fascista come non poteva esserlo la fazione Showa dato il suo assolutismo “reazionario”. Gli esponenti del movimento di Tojo consideravano infatti Mussolini un “samurai” incarnatosi nella nazione italiana e tenevano in alta considerazione il pensiero e la strategia del Duce italiano (questo in realtà valeva anche per gli esponenti della Fazione del cammino Imperiale). Ancora prima che Sukuzi consumasse il reato della resa, era definito dalla Fazione Tojo il “Badoglio del Giappone”. Non è quindi per nulla errata la tesi di fondo del saggio di Emiko Ohnuki-Tierney sulla militarizzazione dell’estetica nell’Impero del Sol Levante, finalizzata alla custodia dello Spirituale avito, che fuoriesce dalle tattiche e strategie consolidate dalle altre forze in campo pur senza affatto ignorarle, come invece volevano le fazioni più tradizionaliste. Nel settembre 1943 la chiamata alle armi per la leva degli studenti bandita dal gabinetto Tojo fu simboleggiata dal termine antico shutsujin, usato per i guerrieri che scendevano in campo; gli studenti erano così elevati al rango di antichi samurai. Nel dicembre ‘43 diecimila studenti diventavano soldati; fra i combattenti della guerra, il numero più alto di caduti si aveva tra gli studenti arruolati in quei giorni. Con l’Editto sull’istruzione del resto, si dava allo stato nipponico il diritto di fondare una sfera veritativa; certamente Tojo ed i suoi non intendevano sviluppare una logica di diritto individuale o di presunta moralità oggettiva di radice illuministica o kantiana in cui l’esigenza dello Spirito veniva sottomessa a moventi ontici: lo sforzo totale era anzi l’opposto, più l’individuo osava approssimarsi, sfidando ostacoli e prove, al mistico e divino potere dell’Imperatore, meno ci si doveva preoccupare degli astratti concetti occidentali fondati su una soggettivistica rappresentazione di un presunto essere oggettivo degradato in realtà a ente.
I comandi americani, sebbene i risultati immediati pratici di queste operazioni del Vento divino o dei Kaiten (Cambiare la volontà del cielo) non erano inizialmente propizi, sentivano però venir pericolosamente meno le loro utilitaristiche certezze strategiche; erano in un certo senso sbigottiti di fronte alla evidente prova di un intero popolo il quale, dopo gli infausti bombardamenti di Tokyo del marzo ‘45, non attendeva che un confronto diretto con quello che si proponeva come l’imminente invasore. Evento mai vissuto dall’arcipelago: il Vento divino soffiava ogni qualvolta l’invasore era vicino alla meta.
Marshall, durante la presa di Corregidor - febbraio ‘45 - descriveva senza veli l’autentico terrore paralizzante provato dal soldato yankee di fronte alla crescita esponenziale di qualità rituale solare, sacrificale messa in campo dai soldati giapponesi.
Solo violando e sovvertendo totalmente la logica del Clausewitz, si potrebbe oggi dire che il Giappone veniva sconfitto.
Gli angloamericani non affrontavano un esercito di terra che, nel corso del conflitto era stato relativamente impiegato a vantaggio delle immani necessità aeronavali. I comitati dei servizi informazione americani valutavano che l’esercito giapponese, altamente addestrato, nella maggior parte dei casi non ancora impiegato in azioni belliche, era un formidabile strumento di guerra. Calcolava nella sua relazione di fine luglio ‘45 che occorrevano ancora almeno sedici mesi per avere ragione del Giappone. Ma a quale prezzo? La società civile americana avrebbe accettato la scontata certezza di un’ecatombe? Sicuramente no, se usiamo come parametro la successiva campagna di Vietnam, che sarebbe stata comunque, per quanto terribile, relativamente leggera rispetto a quanto la Fazione fascista Tojo stava preparando per gli invasori.
Gli stessi inglesi, poco prima sconfitti dall’Esercito imperiale su ogni fronte, non rendevano per nulla omaggio alla loro, per altri versi gloriosa, storia militare supportando i loro cugini d’oltreoceano all’uso dell’atomica, come confermava la presenza di fisici e colonnelli anglosassoni nell’aeroplano della morte di Nagasaki.
Truman, rimasto profondamente colpito dal numero delle perdite americane nella campagna di Okinawa, era a ragione spaventato dal prezzo che sarebbe stato necessario pagare, in vite umane, per l’invasione dell’arcipelago. Si arrivava così alla decisione maligna.
L’uso di ordigni atomici aveva sì l’effetto di convincere il palazzo imperiale nel mettere completamente con le spalle al muro il partito di Tojo, che anche in seguito alla immane tragedia di Nagasaki era per la continuazione della guerra totale - come la quasi totalità del popolo giapponese del resto; ma al tempo stesso salvava il palazzo imperiale, nonostante la tragica imposizione di Mac Arthur (ningen-sengen), dalla capitolazione definitiva. Nelle lunghe giornate successive a quel tragico 15 agosto ‘45 si seguivano insurrezioni interne, rivolte finite in sangue, morte e tragedia, tutte capeggiate da ufficiali e allievi che non volevano assolutamente accettare la resa. Ben incarnavano la visione fascista del generale Tojo. Quando si intendeva, addirittura, colpire direttamente l’Imperatore, del resto, lo si voleva fare per amore assoluto, estremo, verso di lui, non per odio: per liberarlo dalla nefasta influenza di coloro che, vicini a lui, “lo ingannavano” portandolo a una resa che avrebbe pesato per sempre nella storia sacra nipponica, nella misteriosa terra degli Dèi. Il giorno 15, ad esempio, il 302° Stormo ai comandi del colonnello Koniwa inondava il Giappone orientale di piccoli manifesti, con scritto testualmente:
“Editto dell’Aviazione della Marina a tutti i cittadini dell’Impero: I ministri che, raggirati dalle spire dell’idra comunista, persa la fede nella sicura vittoria, osano coprire la santa luce dell’Imperatore, hanno vilmente ingannato il popolo ed infine sono giunti a far promulgare un editto che rende vane le migliaia di anni della nostra storia. Essi hanno osato l’inosabile. Noi saremo per sempre paladini del nostro imperatore e non ci arrenderemo mai. L’esercito imperiale non cade e noi dell’Aviazione continuiamo ad avere fiducia nella vittoria. È chiaro più del sole che accettare la dichiarazione di Potsdam è centinaia di volte più doloroso che continuare la guerra. I ministri traditori non avranno più spazio grazie all’esercito imperiale. Bisogna intanto rafforzare ovunque nel paese gli appostamenti per la vittoria finale. È l’ora della resurrezione millenaria”.
Il 302° Stormo, con questo tanti altri corpi, continuava la guerra, scagliandosi con i suoi aerei contro le truppe di occupazione sino al 02 settembre. La volontà dell’Imperatore, il padre benevolo di circa cento milioni di anime pronte a sacrificarsi, di “sopportare l’insopportabile” per tutelare il diritto alla vita e alla continuità della stirpe nipponica era il tragico canto del cigno del Fascismo giapponese, almeno di quel modello storicamente conosciuto. La Russia - che aveva avuto la sfrontatezza storica di dichiarare guerra al popolo nipponico il 08 agosto in contemporanea al terrore atomico dispiegato per prendersi sfere terrestri e isole perdute in guerre lealmente combattute e vinte dall’Esercito imperale e dalla Marina - era pronta a spartirsi l’Oriente con i suoi alleati angloamericani.
Il “Vento divino” avrebbe però placato la fame dei demoni di azzannare integralmente il Giappone mutilandolo della sua Anima immortale. Il “Vento divino” iniziava a irradiare in tutto l’Oriente estremo, dove americani e russi erano da secoli e secoli visti e, soprattutto, direttamente percepiti nella pelle e nell’anima come due asimmetrici specchi del medesimo sistema imperialista.
L’ascesa di Giappone e Cina nella contesa mondiale. Mao e Deng
“I giapponesi… sono infatti il più grande popolo. Hanno osato far la guerra all’America, all’Inghilterra ed anche alla Francia; hanno bombardato Pearl Harbour, hanno conquistato le Filippine e inoltre il Vietnam, Thailandia, Burma, Malacca, Indonesia; si sono fatti strada battagliando sino all’India orientale… L’esercito giapponese ha perduto colà duecentomila uomini…”.
Mao Zedong, Giappone nostro insuperabile maestro e conti non saldati con i russi, 10 luglio 1964
Gli imperialisti occidentali - a differenza di quanto avevano promesso furiosi appena pochi mesi prima - non osarono decapitare l’Imperatore di fronte al mondo intero in una sorta di Piazzale Loreto dell’Estremo Oriente; non osarono nemmeno trasformare il tempio Yasukuni in cinodromo e centro di scommesse, come avevano giurato sul loro stesso onore pochi minuti dopo aver imposto all’umanità la follia atomica. La furia del dileguare angloamericana e dei loro alleati bolscevichi serbava nel proprio seno la hybris di chi avrebbe finito per restare scolpito nella memoria come un Golia totalmente privo di Sapienza. Un potente del tutto inetto nel saggio esercizio dell’arte imperiale. Virtù d’altra parte di un Alessandro, di un Napoleone.
Proprio grazie all’azione rituale del Tokkotai, avrebbe gradualmente preso corpo storico, nell’Oriente estremo, l’antica massima: “il forte diventa debole se il debole diventa forte”…
Gli oppressori mondiali di Potsdam e Yalta, avrebbero inanellato una serie impressionante di sconfitte strategiche, che il 02 settembre ‘45 era impossibile prevedere. Tali eventi avrebbero dato realtà concreta al principio storico-spirituale di Tojo: “L’Asia agli asiatici”.
“Ho la ferma fiducia che lo spirito con cui il Giappone è stato educato per trenta secoli, non potrà sparire nello spazio d’un mattino”; diceva Tojo durante il processo di Tokyo agli accusatori del Fascismo giapponese e del suo medesimo popolo. Li avvertiva pubblicamente, inoltre, che il loro era un mattino artificiale senza luci; conosceva i popoli asiatici ben meglio di loro, era certo che il Giappone fascista era stato l’apripista storico e spirituale di un processo ormai inarrestabile. Non vi era spazio in Asia per gli imperialisti di Yalta, diceva ripetutamente Tojo dal ‘46 al ‘48. “I popoli antichi, i quali ebbero per culla l’Asia dell’Est, godranno di un glorioso avvenire… grazie all’onesta conoscenza e comprensione acquisite nel corso di questa grande guerra” (Testamento pubblico Tojo Hideki, punto 3).
Ancora prima della guerra di “liberazione” di Tojo e del popolo giapponese, nessuno dei popoli di quelli che oggi sono i cinquanta stati sovrani dell’Asia si considerava abitante di un unico continente.
Adolf Hitler, nei suoi Ultimi Discorsi del ‘45 (da ritenere veridici e quasi sicuramente autentici), prevedeva non solo una veloce rinascita del Giappone, ma anche l’ascesa della Cina a superpotenza mondiale; entrambi questi eventi, si sarebbero verificati a lungo andare contro ogni disegno imperialista russo e americano. La rivoluzione cinese apriva in effetti una nuova fase strategica: il Cremlino non aveva mai seriamente appoggiato la fazione maoista durante la lunga guerra civile, facendo un doppio e triplo gioco ed anzi, particolare significativo, l’unico ambasciatore che accompagnava Chiang Kai Shek a Formosa dopo il trionfo maoista era un agente stalinista. Mao, durante la guerra civile, rappresentava la fazione meno sostenuta, tra le altre, dagli imperialisti; poteva avvalersi solo dal 1940 del costante sostegno dell’intelligence americana Oss, ma contro il parere di inglesi e russi, che lo consideravano in potenza il leader più pericoloso, in quanto più “nazionalista” e autentico cultore della antica via imperiale Han; ben più pericoloso, per loro, delle forze della destra antigiapponese. Nella visione sovietica, Mao non era un marxista, ma un idealista taoista discepolo dell’eterodosso Li Dhazao, un nazionalista “grande cinese” di scuola Han, un reazionario fautore di una guerriglia contadina, non di una “rivoluzione proletaria”: ben più nazionalista e reazionario, perciò, di quanto lo era Chiang. Mao, dicevano a Stalin gli agenti sovietici che erano spesso in missione in estremo Oriente, una volta alla guida del paese, avrebbe anzitutto puntato a riprendersi le terre sottratte dagli zar alla Cina storica.
Dopo un finto idillio di pochi anni, la contesa tra maoisti e comunisti russi si scatenava imprevista.
Era falso, naturalmente, quanto si narrava allora in Occidente, che la corrente neo-confuciana di Liu Shaoqi e Deng Xiaoping era filosovietica: lo scontro che opponeva questa frazione a quella maoista riguardava esclusivamente il modello capitalista statale che doveva portare la Cina nella piena modernità. Mao accusava Mosca di socialimperialismo, neozarismo, alleanza strategica con gli Usa a danno del Secondo e Terzo Mondo: la logica di avanzamento del comunismo sovietico, come quella del capitalismo angloamericano in Occidente, era rappresentata per i cinesi dal “depredamento continuo” che si verificava nel processo di scambio con i paesi gravitanti nel blocco sovietico. A ciò si aggiungeva la morsa che americani e russi stringevano come cappio al collo di quei paesi e popoli del Terzo Mondo che non avevano la forza politica, militare e economica per contrattare con i due imperialismi.
La Cina maoista era totalmente isolata in questa coraggiosa e giusta lotta. Dalla fine degli anni ‘50 sino all’inizio della Grande rivoluzione culturale, la posizione internazionale della Cina era quella di chi camminava sul filo del rasoio; quasi sicuramente, l’attuazione autarchica di un’autonomia nucleare - sabotata da Mosca con ogni mezzo - sommata alla indubbia capacità del “grande timoniere” di radicalizzare quel processo di mobilitazione e nazionalizzazione delle masse nel quale solamente Mussolini ed Adolf Hitler erano riusciti, oltre al fatto di trovarsi di fronte a una nazione-continente come la Cina riunificata, facevano desistere gli imperialisti di Yalta dall’eliminare un elemento assai scomodo nella scacchiera globale. Inoltre, come ben mostrava Maurice Meisner nei suoi fondamentali saggi, il maoismo sin dalla metà degli anni ‘50 almeno, andava prendendo una propria precisa fisionomia, di radicale rottura con il marxismo sovietico in ogni sua forma e declinazione; molti scritti di quel periodo di Mao non sarebbero mai stati pubblicati, in quanto ormai completamente “antimarxisti”. Per comprendere il mondo ideale maoista, restavano le poesie; e queste erano effettivamente un tripudio di taoismo e di nazionalismo grande-cinese, da quelle degli anni ‘50 all’ultima nota, dedicata al suo “fratello Han” Zhou En Lai (1975):
“Genitori leali che tanto sacrificano alla Patria amata mai temono l’ultimo destino”…
Il resto, gli scritti pubblici, politico-filosofici, erano solo strumento ideologico nella lotta di fazione o arma di propaganda antirussa e antiamericanista.
La crisi dei missili a Cuba, unico momento storico in cui l’imperialismo russo cercava di svincolarsi dall’Imperialismo unitario ineguale con gli Usa, mostrava la sostanziale debolezza tattica sovietica e il suo avventurismo strategico.
Dalla metà degli anni ‘60 sino al crollo dell’Urss, le teorie strategiche maoiste della Linea orizzontale - Urss primo nemico in quanto immediato e più vicino, nella prospettiva della successiva guerra multilaterale, senza limiti agli Usa; del “grande caos sotto il cielo” - la minaccia interna alla Repubblica popolare ad opera dei nuovi zar bolscevichi - “ma eccellente la situazione”- i nemici interni erano scovati; e la dottrina dei tre mondi proposta da Deng Xiaoping anche in sede Onu, trascendevano le lotte di fazione in omaggio alla prioritaria essenza nazionalista Han della Repubblica popolare. L’unica eccezione era rappresentata appunto dalla fazione filorussa di Lin Biao, radicalmente anticonfuciana nonostante i successivi slogan di propaganda della Banda dei quattro. La fazione militare di Lin Biao, per certi versi l’autentica custode di ciò che del marxismo internazionalista rimaneva nella lotta di vertice, veniva bruciata sul tempo dai maoisti, con ogni probabilità in prossimità d’un golpe supportato da Mosca, che avrebbe riportato il popolo cinese all’epoca delle concessioni straniere. La teoria delle zone intermedie - appoggio cinese al nascente asse renano in Europa e all’ascesa del Giappone - e l’apologia del Terzo Mondo e dei paesi sottosviluppati con sostegni economici e infrastrutturali di cui il leader cinese si faceva il portavoce globale, divenivano le tattiche volte a scardinare quel bipolarismo tra America e Russia su cui Kissinger fondava il proposito di una stabilità mondiale - a danno di Secondo e Terzo Mondo - che si prolungasse almeno sino all’anno Duemila.
Occorre fissare le due date strategiche del dopoguerra per comprendere che la visione eurocentrica o ancor meglio americanocentrica del ‘45-’90 che ci veniva fatta sorbire era assai ingannevole.
La vera guerra era stata tra Cina e Russia, non tra Usa e Russia. Era la Cina che portava alla luce le contraddizioni dell’Imperialismo unitario ineguale. L’imperialismo statunitense appoggiava, secondo le fasi tattiche, ora l’imperialismo russo, ora la Cina, ma non andrebbe dimenticato che la frazione predominante dell’oligarchia mondialista, quella di cui Kissinger era esponente visibile, teorizzava e operava per la stabilità del bipolarismo di Yalta. La diplomazia del ping pong e la visita di Nixon in Cina rientravano in quell’arte della tattica apparente che nascondeva quella reale di cui i Cinesi sono da millenni i maestri. Era il capolavoro di Zhou En Lai, un coraggioso patriota ed un finissimo diplomatico capace di mettere tranquillamente in difficoltà americani e russi.
Le due date fondamentali erano quella del 12 settembre 1973, giorno del golpe cileno ad opera del generale Pinochet; quella del 17 febbraio 1979, giorno d’inizio della terza guerra del Vietnam, in cui la Cina lanciava l’attacco definitivo alla Russia colpendo vari fronti settentrionali del Vietnam, allora - dopo esser stato sostenuto dai cinesi nella guerra antiamericana - caduto dal ‘78 nella rete del Cremlino.
Veniamo ora al Cile. In Sudamerica, secondo la testimonianza di Zhou En Lai, la Cina popolare supportava logisticamente il golpe cileno del ‘73 ben più di quanto aveva fatto la Cia, che in realtà supportava altre correnti nazionalcattoliche e filodemocristiane. La Cina puntava a impedire l’espansionismo cubano nell’Iberoamerica, poiché riteneva che la sovietizzazione del continente latinoamericano poteva essere un successo decisivo, sul piano dei rapporti di forza, dell’“imperialismo neo-zarista”. Si comprendeva che a fianco del generale Pinochet vi era la Cina e non gli Usa da due elementi fattuali. A golpe riuscito, secondo la testimonianza di Patricio La Guardia, il capo della sicurezza di Allende, tutti i cubani presenti nello staff dell’ex presidente cileno, invece che esser fermati o arrestati, venivano fatti tornare tranquillamente a Cuba su diretto intervento di Pinochet; era questo l’avvertimento cinese a Castro di non premere troppo l’acceleratore per una sovietizzazione dell’America latina. L’altro elemento è che nei giorni successivi al golpe, guerriglieri marxisti trovavano ospitalità in tutte le ambasciate presenti a Santiago (a iniziare da quella americana, come poi si apprendeva con certezza grazie a varie testimonianze durante il famoso Processo Condor) ma non in quella cinese e spagnola. Già dai primi anni settanta, Mao si era avvicinato a Francisco Franco. Dopo la morte dell’ammiraglio Carrero Blanco, il primo telegramma che giungeva a Franco era quello dell’ambasciatore cinese; il 01 ottobre ‘75, quando tutto l’Occidente tuonava contro la Spagna a causa della repressione di cinque antifascisti spagnoli avvenuta quattro giorni prima, il medesimo ambasciatore andava a rendere omaggio a Franco; durante i funerali del caudillo brillava su tutte una corona: era quella di Mao Zedong. Dopo il golpe cileno, prima Mao poi Deng Xiaoping tenevano in vita il Governo di salvezza nazionale di Pinochet vittima di un boicottaggio mondiale, che vedeva in prima linea Russia e Stati Uniti; nel settembre ‘75 una delegazione cilena era ricevuta a Pechino con massimi onori, che non erano solitamente riservati ai gruppuscoli maoisti occidentali, mai più di tanto tollerati; nel febbraio successivo Pinochet riceveva dal presidente Mao un prestito corrispondente a 100 milioni di dollari (si veda al riguardo, per tutte le preziose informazioni riportate, l’interessante saggio del bordighista A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, Pistoia 1976, pp. 231-233, utilissimo per le notizie, molto meno per le conclusioni tendenziose, radicalmente antimaoiste, dell’autore).
Pinochet dichiarava che tra le potenze mondiali, di contro al sistematico sforzo di sabotaggio occidentale, “Cina e Giappone sono le uniche nazioni amiche del Cile nazionale”; secondo quanto annotava il sinologo Ezra Vogel, Deng Xiaoping a chi gli chiedeva come facesse la Cina popolare a sostenere così fattivamente un regime come quello cileno, rispondeva che i “Chicago Boys” erano solo fumo negli occhi per tenere buono il mondo industriale americano; in realtà il Cile di Pinochet nazionalizzava le strategiche industrie di rame - fondamentali nel commercio con Cina e Giappone - come Allende non aveva saputo fare. Propaganda e menzogne a parte, andava infatti sottolineato che quando il regime nazionale cileno lasciava il potere, nel 1990, la ripresa sociale del paese, rispetto alle condizioni del ‘73-‘74, era sbalorditiva. Il livello dei risparmi delle famiglie, in un processo di equilibrata crescita sociale senza vistose sperequazioni, si collocava al primo posto non solo in Sudamerica ma in tutto l’emisfero occidentale, Usa inclusi. Sino alla fine, quando l’Occidente e i sionisti lo processavano, la Cina popolare rivendicava la sua alleanza totale con Pinochet ed il suo movimento nazionale (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/06/25/israele-proteste-per-la-visita-di-pinochet.html).
Nell’‘81 la Cina denunciava l’imperialismo americano durante la crisi di Salvador.
Sempre nel continente iberoamericano, venivano inoltre sostenute dai cinesi frazioni evitiste, terceriste e lo stesso Eden Pastora fino all’alleanza di quest’ultimo con i Contras, evento che lo distanziava logicamente dai cinesi. Medesima posizione neutralista, come ha sostenuto di recente M’Baye Babacar Cissè, l’Impero di mezzo prospettava a un’Africa, che oggi, nella quasi totalità dei casi preferisce affidarsi ai nuovi protettori cinesi che agli antichi oppressori russi o occidentali. Veniva smentito dai fatti il sostegno di Pechino a Savimbi, che i quotidiani occidentali lasciavano credere. In Europa, oltre a vedere di buon occhio il nascente asse franco-tedesco, Zhongnanhai appoggiava le rivolte popolari antirusse nella sfera d’influenza sovietica. Tentava anche di ostacolare in ogni modo l’accordo strategico Dc-Pci in Italia, purtroppo in questo caso senza successo, data la totale subalternità delle sinistre più o meno radicali con il Cremlino. Non poteva passare inosservata la radicale campagna di demonizzazione del Craxi II condotta nell’‘86, in seguito al viaggio diplomatico del leader socialista da Deng Xiaoping. Tale campagna si attivava con il solito coro, per la stampa guidato da “L’espresso”, per la pubblica opinione dalla foga di un comico; il Pci, con significativa sponda della sinistra Dc, aveva quindi buon gioco a far fallire una potenziale partnership strategica tra i socialisti italiani ed i denghisti cinesi. Le dimissioni craxiane (marzo 1987) erano l’inizio del declino e la sostanziale fine, da allora a oggi, in Italia, di ogni autentica fazione strategica neutralista. Russi ed americani non potevano che star tranquilli.
Arriviamo ora al Vietnam: il 17 febbraio ‘79 Deng sferrava un contenuto colpo punitivo ai russi, che stavano invadendo il Mar cinese meridionale, conquistando in ventinove giorni tre province vietnamite poste lungo il confine. Pechino non voleva conquistare quelle province (sebbene non restituiva a Hanoi i territori tradizionalmente contesi) o rovesciare il governo vietnamita o esercitare un’influenza diretta in Cambogia, ma opporsi a quel cordone imperialista russo che si stava costruendo attorno alla Cina. Deng concretizzava il concetto del “shi” come era identificato in Sun zu: l’energia potenziale del multiforme panorama tattico andava delineata in tendenza strategica. Era una guerra intensissima e violentissima, seppur durata neppure un mese: l’Esercito popolare di liberazione perdeva infatti, in così poco tempo, lo stesso numero di soldati perduto dagli Stati Uniti negli anni più aspri della seconda guerra del Vietnam. I russi non intervenivano direttamente, speravano che i vietnamiti gli togliessero le castagne dal fuoco: ma ciò non avveniva, la strategia si imponeva sull’imperialismo sovietico.
Da quel 16 marzo, anche i russi battevano in ritirata dall’Asia orientale. Yalta, come si era configurata dal ‘45, andava esaurendosi ben prima del previsto.
Andava riconsiderata e metamorfosata. La visione di Kissinger e la prassi di Breznev che, con quella coincidente, aveva proclamato il 07 giugno 1969 la direttiva del “sistema di sicurezza sovietico” a ridosso dell’Oriente estremo crollava di fronte all’avanzare della nuova realtà tattica. Dal ‘45 al ‘79, in Asia vi erano state ben quattordici guerre; circa otto milioni i morti totali. Il nuovo fronte afghano, aperto autonomamente da Mosca in una irreale corsa contro il tempo di fronte alla pienamente riuscita ristrutturazione giapponese e al risveglio cinese, in continuità con la storica tendenza stalinista-neozarista dell’estensione di superficie verso l’Oriente (a lato di una mancata ristrutturazione di profondità interna) falliva completamente nel tentativo di abbordare l’Oceano Indiano. Anche sulle dinamiche afghane venivano diffuse in Occidente versioni ingannevoli di vari livelli; senza scendere nei particolari, erano i movimenti afghani gravitanti nell’orbita di Pechino a dare avvio alla resistenza afghana (C. Degli Abbati- O. Roy, Afghanistan, Genova 2002, pag. 201); il sostegno Usa alla resistenza, a differenza di quanto si faceva credere con la propaganda, rimaneva nei fatti assolutamente aleatorio (ibidem, pag. 205), mentre era forte l’impegno occidentale sul piano diplomatico e politico. Esula da questo contesto un simile approfondimento, ma chiunque abbia minimamente affrontato da un punto di vista tecnico la dinamica dell’invasione sovietica, non può non considerare centrale la resistenza dell’eroe afghano (di proposito non si dice tagiko) Massud e del suo fronte militare unito. Lo sbarramento opposto in più e più casi, oltre i limiti del possibile, con una metodica d’azione che trascendeva e dileguava effettivamente nella leggenda - e va detto senza retorica ma per amor di verità) - era l’elemento decisivo della sconfitta dell’imperialismo sovietico. Era quella una vittoria spirituale. Il materialismo comunista era sconfitto perché il retroterra strategico della fortezza di Massud, lo snodo che da Kabul poteva condurre nel Panjshir, nella piana Shomali presso Charikar, non cadeva nonostante i pesantissimi assalti russi.
Armi americane i soldati di Massud non ne avevano: nella maggior parte dei casi combattevano anzi con armi di fabbricazione sovietica tolte agli invasori. Non le “democrazie” occidentali ma Massud, il popolo della valle che aveva pagato il prezzo più pesante dei bombardamenti sovietici sui civili, i suoi mujaheddin, erano i vincitori di quella decisiva fase tattica della guerra di difesa dall’imperialismo sovietico. Strategicamente la Cina avrebbe avanzato in coincidenza con l’invasione dell’Afghanistan fino a portare alla catastrofe l’Urss, mentre proprio nel fatidico 2001 Washington, con il supporto di fazioni islamiste antiafghane, già in precedenza inessenziali nella tremenda lotta di liberazione antirussa, riusciva, dopo centinaia di tentativi, ad assassinare il Leone del Panjshir. Un autentico comandante, limpida guida spirituale del popolo afghano, che non aveva voluto strappare definitivamente Kabul ai Taliban (settembre 1996) - armati e sostenuti dalle frazioni plutocratiche d’Occidente - non perché non poteva, ma perché la gente di Kabul aveva già pagato troppo: non ne sarebbe perciò rimasto più nulla né di questa né di Kabul…
Nel frattempo, mentre la Cina si era opposta alla rivoluzione iraniana - l’ultimo incontro di stato di Reza Pahlavi era, non a caso, con il presidente cinese Hua Guofeng il 30 agosto 1978 - intuendone in anticipo la dinamica panislamistica, perciò radicalmente antiaraba (come già la storia dell’Egitto nasserista doveva insegnare), gli israeliani in fondo la supportavano nel gradito scenario di una possibile polarizzazione irano-israeliana del vicino Oriente, che tagliasse fuori la Nazione araba; americani e russi invece scaricavano lo Shah persiano al suo destino, non facendo nulla, se non altro, per impedire l’avvento della teocrazia. Uno Shah a cui l’Occidente doveva far pagare quella coraggiosa politica petrolifera filoaraba - nonostante Egli fosse la guida spirituale e politica di una nazione di cui non perdeva momento di ricordare la radice “ariana”- condotta con re Faysal, che era già stato ucciso sotto pressione statunitense il 25 marzo 1975 e con Sadat, assassinato nell’‘81 su mandato dell’imperialismo sionista.
Le tragiche guerre civili, ormai permanenti, che travagliavano poi l’intera Nazione araba (Iraq, Libano, Siria) estendendosi a Yemen e Libia ed in parte all’Egitto, la legalizzata schiavitù a cui era lasciato il popolo di Palestina, permettendo a Israele e Iran di rafforzare le proprie posizioni, ci dicono quanto fosse lucida e saggia la visione di Zhongnanhai.
Con l’affermazione definitiva della linea Deng, mediante una saggezza pratica millenaria, di cui anche le cerchie oligarchiche angloamericane non capivano effettivamente molto, almeno inizialmente, credendo addirittura che il denghismo, a differenza del maoismo, fosse una rottura di tipo occidentalista nel tessuto della Repubblica popolare, la Cina avanzava conquistando fronte dopo fronte senza sparare un colpo. Durante la questione di Hong Kong, Deng senza mezzi termini intimava la resa totale a Margaret Thatcher: se i britannici non volevano lo scontro diretto con l’Esercito di liberazione popolare dovevano lasciare la regione e naturalmente gli anglosassoni, mestamente, sloggiavano. Sulla vicenda di piazza Tienanmen, Deng chiariva che la Cina popolare non sarebbe mai diventata una “democrazia” di taglio angloamericano - “Noi non ci sottometteremo mai all’Occidente” -, che l’arma delle sanzioni non avrebbe avuto particolari effetti negativi sull’evoluzione riformista ed infine, che gli angloamericani non comprendevano cicli storici e di civiltà. Kissinger avrebbe infine considerato che i calcoli occidentali erano stati errati; il denghismo non era una “evoluzione” di tipo socialdemocratico, ma un nazionalismo cinese che puntava a modernizzare l’antica natura imperiale della Grande Cina (H. Kissinger, La Cina, Milano 2011, 367-394). Ed infatti, il leader cinese, prima di uscire di scena, come poesie classiche, lasciava il suo testamento in mano all’Esercito nelle “dichiarazioni di ventiquattro e dodici caratteri”.
La prima dichiarazione recitava: “Osservare con attenzione; consolidare la posizione; affrontare con calma i problemi; nascondere le nostre qualità e aspettare il momento opportuno; imparare a mantenere un basso profilo; non rivendicare mai la leadership”.
Infine, la seconda: “Le truppe nemiche sono assiepate fuori dalle mura. Sono più forti di noi. Dobbiamo rimanere principalmente sulla difensiva”.
Deng, nell’intero dopoguerra, era una eccezione significativa, di effettivo peso, nell’arte di stato, che solo in Cina poteva avere spazio e aveva magistralmente operato affinché l’Impero di mezzo, come si poteva percepire da questo testamento, comunque destinato a un conflitto strategico con gli Usa, avesse già le spalle totalmente coperte. Consigliava ai suoi successori di colpire e azzannare l’imperialismo americano sui fianchi scoperti, laddove quest’ultimo non si aspettava affatto l’attacco: sul piano militare convenzionale occorreva essere solo pronti alla totale autodifesa. Nonostante le radicali contrapposizioni sulla politica interna, il maoismo in tal caso continuava ed evolveva nel denghismo: dopo aver costretto i sovietici alla catastrofe, i cinesi puntavano ora agli Usa in un chiarissimo disegno di “primato mondiale”. Le ultime lezioni di Deng, quando si era ormai completamente ritirato a vita privata, erano riservate ai vertici dell’Esercito popolare di liberazione: poi questi avrebbero dovuto evolvere il nucleo di quel pensiero strategico.
Dopo il “decennio glorioso” cinese, studiosi del Fascismo come Gregor o analisti come Ledeen scrivevano e propagandavano la visione del denghismo come la tanto temuta nuova forma di Fascismo che avanzava nel pianeta; se in realtà ciò era inesatto e tendenzioso (soprattutto nella versione datane dall’analista), era anche vero che si andava proponendo di giorno in giorno, come ideologia di stato, un neoconfucianesimo di destra, sviluppista, volto a contenere quegli eccessi di occidentalizzazione interna che l’“apertura al mondo” avevano provocato (M. Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi tra tradizione e mercato, Bologna 2015).
Elemento fondamentale, quello della tendenza centrale neo-confuciana, in quanto da fine anni ‘80 si andava radicalizzando in Cina una tremenda lotta di clan, da cui dipendeva e tutt’oggi dipende il destino dell’Impero di mezzo. Su un nucleo di frazioni per ora minoritarie ed autenticamente neo-comuniste, organicamente legate alla Nuova Sinistra (esempio Bo Xilai), che si andavano aprendo sempre di più ad una globalizzazione livellatrice fondata sulla logica dell’intreccio finanziario con Wall street e con la City, continuava a imporsi la tendenza tuttora dominante, denghista e confuciana, fondata su un grande nazionalismo Han e su un impulso parzialmente, peraltro con profonde incoerenze tattiche, panasiatista. Deng aveva una particolare relazione fondata sulla reciproca stima con il leader patriottico nipponico Kakuei Tanaka, su cui in molti fondamentali punti ben si incontrava. Aveva inoltre una indubbia stima della cultura nipponica. Con Xi Jinping, la Cina usciva finalmente allo scoperto: il “sogno cinese” diveniva il sogno globale, ovvero la marcia verso il primato mondiale. Nota fondamentale: ciò dipenderà dalla capacità dell’attuale dirigenza neo-confuciana di saper sviluppare un modello modernista-reazionario, che in Giappone sopravviveva, pur con drammatiche contraddizioni, anche dopo il ‘45. Se l’occidentalizzazione interna continuerà a questi ritmi, lo spirito cinese sparirà definitivamente nel giro di due generazioni, come è purtroppo successo in Europa dopo il ‘45 (ma non in Giappone). Se viceversa l’ideologia confuciana riuscirà a conciliare il “moderato benessere” promesso a tutto il popolo con il culto dell’autorità, continuando a tenere a freno il capitale finanziario; la giusta esigenza del diritto individuale con il culto della comunità nella superiorità essenziale della “Repubblica sociale confuciana” di cui ha parlato Xi in vari casi, senza degenerare nella barbarie del fanatismo nichilista dirittoumanitarista: allora probabilmente la carta neo-confuciana potrebbe diventare l’ideologia predominante di un altro tipo di globalizzazione. Non a caso, il modello del “rinascimento cinese” di Xi sembra chiaramente essere la dinastia Tang (618-907), che sapeva imporre un universalismo cinese facendo di Chang’an il centro del mondo.
Per l’Europa, assaltata da un secolo di imperialismo planetario e gigantismo americanistico, osteggiata dal nuovo corso “internazionalista” del Cremlino, sarebbe viceversa assai auspicabile una definitiva ascesa globale di Zhongnanhai.
I segnali che arrivano dalla Cina sembrano purtroppo però andare in tutt’altra direzione, dato il diffuso desiderio di semplice consumo che spinge la gioventù cinese ad un avanzamento sociale. È comunque impossibile fare previsioni, in particolare sulla Cina, tanto son state sistematicamente smentite nello scorso secolo.
Gli anni successivi al 2000, che vedevano sempre più Giappone e Cina padrone dell’intero debito americano, e l’Occidente profondamente spaccato e diviso in almeno tre contrapposte scuole strategiche sul previsto regolamento di conti con l’Asia orientale, che veniva datato in una ipotetica Terza Guerra Mondiale tra il 2025 e il 2030 (salvo precedenti imprevisti…), rivelavano la profonda saggezza di quella lapidaria premonizione di Adolf Hitler, preceduta pochi giorni prima da questo significativo pensiero: “Io non ho mai ritenuto che un cinese e un giapponese fossero inferiori a noi. Essi appartengono ad antiche civiltà e sono dispostissimo ad ammettere che il loro passato sia superiore al nostro”. (Il testamento di Hitler a cura di F. Genoud con introduzione di Trevor Roper, Verona1961, p. 75). Riguardo l’alleanza con il popolo del Sol Levante, il quale, era secondo la sua Concezione del mondo, l’unico popolo sulla terra che aveva avuto lo storico coraggio di entrare nella modernità senza usufruire di quella forma-macchinazione di Capitalismo che Sombart e altri analisti della scuola di Weber identificavano con lo “spirito ebraico”, invece dichiarava il 18 febbraio ‘45: “Il Giappone rimarrà sempre un alleato e un amico. Questa guerra ci insegnerà ad apprezzarlo e a rispettarlo più che mai” (ibidem, pag. 103).
Benito Mussolini aveva invece ricordato in diversi momenti che non vi poteva essere nulla di più suggestivo e illuminante circa il significato di quella guerra di civiltà che l’esempio dei Tre popoli che, primo caso nella storia mondiale delle civiltà, sulla linea della condotta del grande Alessandro, avevano finalmente unificato idealmente Occidente e Oriente fuori da ogni logica di sfruttamento capitalistico occidentale. Tre popoli che volevano semplicemente avviare un altro modello di sviluppo e di approccio alla necessaria modernizzazione, rispetto al modello dominante. Nel suo ultimo intervento pubblico, al Lirico di Milano, così salutava il popolo del Sol Levante “È per noi italiani della Repubblica Sociale motivo di orgoglio avere a fianco i soldati, i marinai, gli aviatori del Tenno che, con le loro gesta, si impongono all’ammirazione del mondo”.
Era il risveglio dell’Asia millenaria, oppressa, che l’Italia sociale e nazionalpopolare era in grado allora di percepire e di supportare, quale massimo fronte avanzato oltre le linee di un avverso Occidente. Era la lucida percezione del diritto della Realtà sovra-materiale del “Vento divino” a irraggiare nel divenire storico di popoli, civiltà, continenti.
Il Giappone non morrà
Sempre risuona
Il vento deserto di Dio su nere mura
G. Trakl
Il 01 gennaio ‘46 rimaneva impresso nella perennità per il Tennō no ningen sengen.
Nascevano interpretazioni di opposta sostanza circa il passaggio della dichiarazione imperiale su la “falsa concezione secondo la quale l’imperatore sarebbe divino”. Ancora il 23 agosto 1977, durante una rarissima intervista, l’Imperatore diceva di contro che ciò che più aveva cara era l’unicità del Destino del Giappone imperiale, di certa radice divina. Al riguardo l’ex primo ministro Kijuro Shidehara, in carica quando veniva stilata e diffusa la dichiarazione del 01 gennaio, si pronunciava eccezionalmente sul fatto che l’Imperatore non aveva mai messo in dubbio l’origine sacra della dinastia, ma voleva solo portare a compimento il fine ultimo della “rivoluzione Meiji”, ossia parificare il livello culturale e tecnico-scientifico del Giappone imperiale con l’Occidente.
Nonostante tutto ciò il mito sembrava allora crollare e fuggire nella ineffabile trascendenza. Si scindeva dalla realtà sensibile: fuggiva troppo in alto in un’oscurità ulteriore al crepuscolo…
In fondo, erano passati solo pochi mesi da quando, pochissimi giorni prima della resa del 02 settembre, il 26 agosto precisamente, i dodici membri della “Meiro Kai”, l’Associazione del sole splendente, si erano dati la morte per Lui, per il santo Imperatore, ottemperando all’ordine del loro capo, Hibi Waichi, anche egli caduto per la sacra dinastia. E due giorni prima di loro, dopo una rivolta andata in fumo, i tredici membri del “Daito Juku”, l’Istituto per il grande Oriente, avevano eseguito lo stesso rito. Così era stato per il ministro della guerra Anami, durante la notte del 14 agosto. Così era stato per Onishi, alle prime luci del mattino del 15 agosto.
Processi e impiccagioni di militari nipponici, da parte degli Alleati e dei Sovietici, orgia di sangue e orrore dell’orda vittoriosa, si stavano allora preparando a Manila nelle Filippine, a Mosca, a Yokohama. Il popolo giapponese era tremendamente scosso. Sanguinava il suo eterno elemento di vita, distrutto e macerato.
Dopo il 02 settembre ‘45, a Tokyo, il generale era il ricercato numero uno da parte degli undici giudici (uno per ogni nazione vincitrice) che erano lì riuniti per condannare i politici e i militari giapponesi. Tale era la volontà del comandante generale delle forze alleate Douglas Mac Arthur. E tale era lo scopo del cosiddetto “tribunale internazionale per l’estremo Oriente”.
Nel dopoguerra, circolavano migliaia di interpretazioni sensazionalistiche sul motivo per cui l’Imperatore non veniva condannato a morte.
Il motivo era in realtà molto semplice. Bastava leggere ciò che Mac Arthur diceva ai suoi alleati, gli anglofrancesi e i comunisti russi, e non ricamarci troppo sopra:
“Se siete convinti di voler processare il Tenno, dovete immediatamente spedirmi qui almeno un altro milione di soldati pronti a lasciarci la vita. Non saprei come gestire la situazione e quanto a lungo potrà durare l’instabilità…”.
La Russia comunista che aveva dichiarato guerra al popolo nipponico il 08 agosto, nel pieno del terrore atomico, ora vacillava paurosamente nel suo sentimento anti-Imperiale.
Gli altri, i francesi e gli inglesi, erano ormai debitori in tutto e per tutto agli statunitensi e il loro parere non era nemmeno richiesto.
Il Giappone rimaneva perciò imperiale, nonostante tutto. Il Sole era ancora lì. Avrebbe continuato a sorgere a Levante, annunciante l’alba. L’eroica operazione del Sole non dileguava. Il rito solare degli “ultimi Dèi” continuava ad operare.
Inutile soffermarsi sui particolari della cattura del generale Tojo e sui momenti successivi alla stessa, tanto son state inquinate e manipolate le notizie a disposizione.
Interessa ricordare invece il messaggio che il generale lasciava al suo stesso popolo negli anni della prigionia. Premesso che Egli, simbolo stesso del Fascismo del “sole splendente” che si manifestava e rivelava, era il solo prigioniero - dentro le sbarre ed i cancelli di Sugamo - a spostarsi sempre incatenato per i polsi a quelli di due soldati e seguito costantemente da un ufficiale che lo sorvegliava da vicino, ciò che emergeva, nei colloqui con il monaco buddhista Hanayama, era la disciplina spirituale e l’etica nipponista che ne caratterizzavano l’essere.
Nel fondo di un carcere poteva percepire - andava rivelando - l’occulto mistero della vita: per questo il Buddha, secondo la sua Concezione degli universi, non poteva esser scolpito in legno, né disegnato, né dipinto. Praticante della scuola Jōdoshū, ovvero il Buddhismo della terra pura occidentale, valutava in modo assolutamente positivo la cosmogonia shintoista del Giappone e la sua Etica che ne aveva plasmato l’anima: sua madre era buddhista della setta Shin, il padre shintoista. Nel corso dell’autodifesa, si rammaricava solamente di non esser stato capace di aver persuaso la Corte a riversare unicamente su di lui tutte le responsabilità della guerra nipponica; si scusava anche di quegli eventuali crimini compiuti dai soldati del Sol Levante, ma precisava che questi riguardavano una parte ristretta dei militari.
Le autentiche menzogne, che purtroppo in un pericoloso eccesso di purismo ultrarivoluzionario avevano colto anche la Fazione della via Imperiale, condizionandone le scelte fondamentali, che volevano Tojo intascarsi mazzette versategli dagli zaibatsu, cadevano una dopo l’altra, proprio nel corso di un processo orchestrato da giudici americani, il cui finale, la condanna a morte del generale, era già scritto.
Il processo di Tokyo iniziava il 03 maggio 1946 e si concludeva il 14 novembre 1948. Tra i cosiddetti “grandi” del Giappone sette erano i condannati alla pena capitale, sedici al carcere a vita.
Alla notizia della condanna a morte del generale, migliaia di patrioti nipponici del Fronte della gioventù e reduci di guerra, per giorni, si scontravano con la polizia militare. Vi erano altri morti e feriti. Da una parte e dall’altra.
L’esecuzione della condanna a morte di Tojo si compiva così nella notte tra il 22 e il 23 dicembre 1948, alle ore 00:01.
Il giorno prima aveva lasciato un “haiku” alla sua adorata consorte, che è anche inutile riportare, tanto son delicate queste vicende.
Al popolo del Giappone, alla storia dell’Asia, lasciava tale poesia:
Già adesso
Non pesa più sul cuore
Neanche una nube
Perché con cuore generoso
M’affretto verso Occidente
(Occidente - in base alla visione spirituale cui il generale si rifaceva - come “terra pura”, adamantino luogo di pace).
Al suo Buddha:
La luce del sole e della luna
È simile al tremolio di una lucciola
Di fronte allo splendore di Amida
Che illumina il mio cammino.
Tojo aveva sessantaquattro anni. Il monaco che lo assisteva raccontava che non temeva la morte, ma gli spiaceva enormemente abbandonare i suoi cari, nella consapevolezza che mai sarebbe cessata la relazione karmica con loro.
Lui era il primo dei sette ad andare alla forca e agli altri aveva detto: “Il Giappone non morirà…”.
Il “mala” che teneva devotamente tra le mani gli veniva strappato via.
Un attimo prima del momento fatale, riportavano i testimoni occidentali presenti, gli altri sei ed altre centinaia di prigionieri erompevano in quel potente e terribile “Banzai!” che aveva risvegliato l’intera Asia nei giorni della liberazione. Era andato incontro alla forca con la sua tradizionale divisa militare.
Prima dell’esecuzione, aveva ricevuto centinaia e centinaia di lettere da ogni parte del Giappone. Ai primi di dicembre, in una lettera pervenutagli uno sconosciuto gli andava annunciando: “Angoscioso è il destino degli eroi del Sole; ma DÈI guardano con pietà e con gratitudine gli uomini sul sentiero della liberazione…”.
I suoi pensieri più limpidi e nobili, nella prolungata solitudine di una cella, guardato a vista ventiquattro ore su ventiquattro, poiché occorreva assolutamente impedire un eventuale suicidio rituale, erano rivolti al suo popolo:
«Per coloro che sono caduti sul campo dell’onore, per quelli morti di malattie contratte in seguito a bombardamenti e ad altri orrori, così come per le famiglie che hanno lasciato dietro di loro, domando la comprensione, naturalmente del governo nipponico, ma anche di tutte le potenze della terra.
Tutti loro sono morti per la nostra millenaria Patria, hanno agito sinceramente per essa.
Se dei crimini sono stati commessi, siamo noi, i capi, gli unici colpevoli.
Con la mia condanna l’espiazione si è conclusa. Non voglio che altri debbano piangere in condizioni di miseria. Spero che le famiglie dei cosiddetti “criminali di guerra” non verranno maltrattate. Spero anche che quelli che si trovano ancora nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica possano essere restituiti alla patria non appena possibile.
Questi sono i pensieri che ho nel cuore, prima di esser giustiziato».
Quanto al Destino di Tojo nella memoria popolare nipponica, anche dopo il 02 settembre 1945, la sua personalità era costantemente ammirata da molti compatrioti. Ma occorreva attendere gli anni ‘70 perché si potesse far luce su molti eventi oscurati dalla propaganda nichilista occidentale anche in Giappone. Particolarmente meritevole era l’azione e la testimonianza intellettuale di varie confraternite, come l’Associazione della risposta alle anime degli eroi, l’Associazione delle famiglie dei caduti e la Nippon Kaigi. In Giappone correnti patriottiche nei loro saggi scrivevano che il peso nella storia del generale era enorme, avendo dopo secoli e secoli posto di nuovo l’Oriente sullo stesso livello dell’Occidente.
In Occidente, invece, seguendo un preciso metodo “occultistico”, su Tojo veniva steso il totale silenzio; se si considerava la centralità epocale dell’unico leader che aveva concretamente osato sfidare senza remore l’imperialismo Usa, si rimaneva quantomeno sorpresi dal fatto che negli Usa, e probabilmente in tutto l’Occidente, una sola biografia di presunto carattere scientifico nel corso di mezzo secolo veniva data alle stampe riguardo visione e strategia del generale. Ma ciò rispondeva chiaramente a un preciso disegno. Era ben più utile e redditizio dare pubblicità agli “alternativi” che l’americanismo lo combattevano con la coesistenza pacifica, aprendo alla distensione di Nixon, con la propaganda altisonante e bruciando in piazza le bandiere a stelle e strisce.
Il 25 novembre 1970 uno dei più noti scrittori ed artisti del Giappone, Yukio Mishima, apprezzato in tutto il globo, a quarantacinque anni compiva con il suo braccio destro Morita l’azione di totale consacrazione allo spirito imperiale; gli altri tre membri del Tatenokai presenti alla base di Ichigaya dello Jietai (Forze di autodifesa giapponesi), non riuscivano a portare a termine l’operazione. Mishima, la cui visione rimandava più ad una evidente impronta tradizionale e conservatrice che rivoluzionaria nipponista, in due romanzi ed in altri scritti, riguardo la lotta di fazione che culminava nell’incidente del febbraio ‘36, optava radicalmente per la destra ruralista reazionaria e considerava un colpo allo spirito del Giappone la sconfitta dei seguaci di Kita Ikki. Nel 1966, nel corso di un colloquio con un esponente della destra radicale nipponica, Fusao Hayashi, sosteneva che “l’Imperatore è infallibile. Egli incarna l’esistenza più misteriosa del mondo. Per me, l’Imperatore, le opere d’arte e lo Shinpuren (la rivolta del 1877 alla quale Mishima si ispirerà per il suo putsch: un attacco all’arma bianca di moderni samurai contro una caserma) sono simboli di purezza. Voglio identificare la mia opera letteraria con la Divinità”. L’azione di Mishima aveva presto una risonanza mondiale e la cultura nipponica, ancora una volta, lasciava il mondo senza risposte ai suoi ricorrenti interrogativi circa la sostanza ultima dell’anima del Sol Levante.
Il 20 febbraio 1974 l’Occidente veniva a conoscere Hiroo Onoda, che si trovava ancora nella giungla dell’isola di Lubang, nelle Filippine; sette mesi dopo veniva a conoscere il soldato di Taiwan Teruo Nakamura. Dopo il 02 settembre 1945, non si erano ancora arresi. Continuavano a lottare nel nome del sacro Imperatore. Forse un brivido correva nella schiena dei più saggi tra i cittadini americani nell’apprendere una tale notizia. Senza la follia atomica e il conseguente annuncio imperiale del 15 agosto, che placava ben più dei bombardamenti americani l’indomito spirito di resistenza dei giapponesi, avrebbero potuto veramente conquistare in soli sedici mesi un popolo di decine di milioni di potenziali Hiroo Onoda? Non si avrà mai risposta ma era assai lecito dubitare considerando che l’atto stesso per cui gli Stati Uniti dovevano onorare il loro genocidio atomico, ovvero la decapitazione dell’Imperatore, rimaneva una mera chimera.
“Per la prima volta, osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa? La baia di Manila era inondata dagli ultimi raggi del sole”
(Hiroo Onoda, Non mi arrendo: i miei trent’anni di guerriglia nella giungla delle Filippine, Verona 1975, pag. 241).
Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 centinaia e centinaia di zanryusha, sbandati (samurai solitari che non avevano accettato la resa), vagavano ancora negli atolli del Pacifico, in Birmania e nelle grandi foreste delle penisole, sui monti delle Filippine.
Nel 1979, finalmente, le ceneri del generale Tojo Hideki e degli altri del suo sodalizio venivano portate nel tempio Yasukuni con cerimonia ristretta.
Taluni, tra gli uomini della cerchia del generale nel corso del Secondo Conflitto Mondiale, si costituivano dai primi anni ‘50 in una precisa corrente della destra radicale, presente nell’LDP giapponese, il quale, a differenza di quanto poteva far pensare il nome (Partito liberaldemocratico), era per taluni versi la continuazione della fazione degli “innovatori” degli anni ‘30. L’LPD non andava tanto visto del resto come un partito politico, quanto come un organismo composto da varie fazioni e movimenti, dove da sempre quella orientata nel senso della destra radicale, verso una modernizzazione del concetto mistico del Dai Nippon Teikoku, ovvero dell’Impero millenario del Grande Giappone, aveva una notevole forza decisionista. Sarebbe ancor più preciso identificare questa corrente della destra radicale con la cosiddetta “fazione anti-Potsdam”; Potsdam come noto era la località da cui Truman nel luglio-agosto ‘45 lanciava più volte ultimatum antinipponici; a Potsdam veniva stilata la dichiarazione delle potenze alleate che fissava l’obiettivo della smilitarizzazione e democratizzazione del Giappone. La fazione anti-Potsdam rimaneva quasi sicuramente, nella logica di clan, la corrente più forte, oltre gli stessi schieramenti partitici. Si pensi ad esempio a Yukio Hatoyama, premier dal 2009 al 2010, ex presidente del DPJ: Ichiro Hatoyama, nonno di Yukio, premier dal 1954 al 1956, era uno dei membri negli anni ‘30 della Fazione Kuhara, molto vicina alla destra ruralista e reazionaria che tentava il colpo di stato del febbraio ‘36. La corrente Hatoyama, a partire dagli anni ‘50, esprimeva una ripresa del nazionalismo giapponese, recuperando molti dei politici “filofascisti” messi fuori gioco dalla politica di epurazione di Mac Arthur. È molto difficile dunque, per un non giapponese, leggere e interpretare le dinamiche politiche interne a certe fazioni giapponesi; ad esempio, vengono considerati “filoamericani” taluni intellettuali, analisti o uomini politici che non lo sono minimamente; lo stesso dicasi per i presunti “filocinesi”. In realtà, i giapponesi sono soprattutto filonipponici, non vedendo altro che il Giappone. Partendo da questo assioma, si può poi cercare di comprendere (ma non è affatto facile) certe tattiche e guerre di posizione di Tokyo sulla scena internazionale.
E qui ci si faceva già un’idea di come il dopoguerra nipponico era diverso, ben più profondo e nobile, nonostante tutto, da quello che italiani e tedeschi, sulla spinta di forze antipatriottiche, avevano comunque voluto subire o si erano adattati a subire.
A tal riguardo, Yoshida Shigeru diceva che gli alleati italo-tedeschi avevano perso sia la guerra sia la pace, mentre i giapponesi non avevano perso né la guerra né la pace e la loro marcia proseguiva, per quanto aveva dovuto ripartire da una posizione di ancor più netto svantaggio rispetto a Usa e Russia.
Il movimento “pacifista” risultava in Giappone, volente o meno, alla lunga una pedina nelle mani degli americani e dei nemici della Patria, la fazione patriottica rimaneva sempre ben rappresentata e ben incarnata anche da uomini di punta degli apparati di potere, che non rispondevano tanto ai potentati internazionali, quanto ai propri ambienti di provenienza.
Secondo una precisa scelta strategica che partiva dalla metà del diciannovesimo secolo circa, il Giappone si era sì modernizzato, evento per molti versi necessario e benefico, ma non americanizzato. Era questo un elemento essenziale su cui spesso si faceva confusione.
Il Sol Levante avanzava sulla strada della modernizzazione e della post-modernizzazione (taluni critici vedevano dagli anni 2000 i primi segni di un sano progresso basato su una sorta di decrescita felice…), senza perdere di vista i suoi valori culturali. Cercava anzi di capitalizzarli al massimo, come era avvenuto alla fine del suo isolamento, quando seguendo il principio wakon-yosai, “spirito nipponico e scienze occidentali”, riusciva a bruciare le tappe, diventando stabilmente una delle prime potenze del mondo. Fosco Maraini ad esempio sosteneva che il “Giappone era sì modernizzato ma non occidentalizzato”.
Genii scientifici come Yugawa e Noguchi smentivano nei fatti la versione “occidentalista” del nipponico mero copiatore dell’occidentale.
La modernizzazione del Giappone avanzava impetuosa, ma l’arcipelago sembrava disporre di anticorpi assai solidi, che puntualmente riemergevano. Al momento della ratifica del Trattato di sicurezza tra Stati Uniti e Giappone nel ‘60, i sentimenti anti-americanisti del popolo nipponico toccavano l’apice. Tokyo, secondo le testimonianze, era avvolta in un’atmosfera così tesa come non accadeva dall’insurrezione del 26 febbraio 1936.
Anche in tal caso, solo chi conosceva poco l’anima del Sol Levante poteva considerare “filoamericano” Nobusuke Kishi che si attivava per la convalida del trattato ma negando al tempo stesso a Eisenhower il permesso di un viaggio a Tokyo.
Edwin Reischauer, ex ambasciatore Usa a Tokyo, grande conoscitore di politica internazionale, sosteneva che nessun popolo e nessun paese nella storia si era auto-rappresentato, e con ragione diceva l’ambasciatore, quanto il Sol Levante come l’antitesi precisa degli Stati Uniti e specificava inoltre che l’occidentalizzazione del paese era e sarebbe rimasta solo formale, non sostanziale. Con grande acutezza, l’analista marxista Arrigo Cervetto scriveva, già dagli anni ‘60, che la guerra antivietnamita Usa era soprattutto a trazione strategica antigiapponese: era cioè volta a impedire la nuova ascesa del Giappone, ormai di nuovo assoluto protagonista nei mercati asiatici e non solo in questi.
“È vero - scriveva Cervetto nel 1976 - che l’egemonia USA e URSS è determinante per l’assetto europeo, ma non è vero che lo sia per quella parte di mondo che è l’Asia. Questo continente ha più della metà della popolazione mondiale. In esso si sono confrontati ieri, si confrontano oggi, si confronteranno domani i reali rapporti di forza fra le potenze imperialistiche… Negli anni ‘60 noi sostenemmo due tesi.
1) Gli Usa in Vietnam combattevano una guerra di ritirata dall’Asia… soprattutto contro la ripresa del Giappone…
2) La Cina avrebbe …appoggiato l’Europa e il Giappone.
Basavamo queste nostre tesi su un’analisi effettiva dei rapporti effettivi di forza, e questo contro tutte le ideologie che, allora come oggi, mistificavano i reali rapporti” (A. Cervetto, L’imperialismo unitario, Milano 1981, pp. 1192, 1994).
Nonostante lo sbalorditivo progresso tecnologico e industriale del periodo dell’“alta crescita” (1955-1973), l’individualismo atomistico e il liberismo capitalistico puro non riuscivano a mettere radici profonde in Giappone; peraltro la “democrazia giapponese” è sui generis, ammesso si voglia considerare “democrazia”, la si può definire una “democrazia organica” non individualista e non collettivista. Dal dopoguerra ad oggi si aveva un egemonismo pressoché ininterrotto della fazione patriottica nazionalpopolare dell’LPD. Fosco Maraini al riguardo sosteneva che non era stato il Sol Levante a “democratizzarsi”, come auspicavano gli angloamericani, ma era stata la democrazia a “nipponizzarsi”. Ciò significava che ciò che di positivo poteva democraticamente essere utilizzato andava messo al servizio del principio comunitario di distribuzione della ricchezza, di evoluzione giuridica, di tutela dei diritti individuali e del diritto all’istruzione nel rispetto assoluto, prioritario dell’Armonia sociale. Avrebbe peraltro continuato a dettar legge una economia sociale di mercato pianificata, con notevoli elementi solidaristici e corporativistici. In seguito, come noto, il Sol Levante diventava la seconda economia mondiale. L’obiettivo nazionale della “rivoluzione Meiji” - raggiungere Usa ed Europa - era definitivamente agganciato nel 1967: il sistema sociale nipponico era ormai additato da molti analisti Usa come il più avanzato del pianeta.
Era stato pagato certamente a carissimo prezzo tutto questo, se vogliamo ricordare la tragica data del 01 gennaio 1946 e l’imposizione del terrore atomico.
Come però la vittoria Imperiale sulla Russia del 1905 - “che lasciò di stucco le cancellerie di tutto il mondo e scosse i popoli” (Wilkinson) - era stato uno spartiacque della storia asiatica e mondiale, allo stesso modo il coraggio che molti tacciavano di follia ma che era solo misurato e armonioso coraggio, con cui Tojo e i suoi si “aprivano” ad una guerra ormai non più evitabile, riportava dopo secoli l’Asia al centro del mondo.
Si mobilitava, da fine anni ‘70, l’intera stampa occidentale per una campagna nippofobica che andava sotto lo slogan Japan bashing, ovvero “addosso al Giappone”, che vedeva nell’invasione gialla il pericolo di fine secolo ed oltre. Quest’avversione in realtà partiva - secondo seri economisti giapponesi del raggio degli “Ukoy dantai” i cui studi erano riportati anche da economisti francesi - da centrali finanziarie occidentali riconducibili ai Rothschild ed ai Rockfeller totalmente uniti in questa nuova crociata antigiapponese. Gli europei purtroppo si univano all’Alta finanza Usa.
Johnson scriveva, con un criterio analitico oggettivo, che lo stato nipponico era un nuovo modello, oltre il supercapitalismo ed il comunismo: “usava” il mercato ma in Giappone non si aveva affatto uno stato al servizio dell’ideologia mercatista o capitalistico-finanziaria.
Huntington scriveva allora che l’espansionismo sociale nipponico, puntando alla messa in discussione del sistema del dollaro, era stato, ancora una volta dopo il ‘45, il più concreto pericolo al sistema internazionale fondato sul dominio di New York.
Nel pieno dello scontro americano-nipponico, l’allora premier Nakasone nel settembre ‘86, dichiarava di fronte all’opinione pubblica mondiale che il livello intellettivo americano era di molto più basso di quello nipponico, che gli occidentali erano solitamente fanatici e megalomani: per questo il mondo euroccidentale si scatenava in un furioso razzismo antigiapponese. Il ministro dell’Istruzione Fujio Masayuki aveva in precedenza dato una conferenza pubblica in cui si mostrava l’infondatezza e l’irrealtà delle tesi storica del “massacro di Nanchino” e della famosa marcia della morte di Bataan. In precedenza aveva dichiarato che era stata la Corea a chiedere, nel 1910, l’annessione al Giappone. Naturalmente, in un clima già tesissimo, tutto questo dava campo libero alla nippofobia dell’imperialismo occidentale.
Il padre fondatore della Malesia moderna, Mohamad Mahatir, stimolava invece i paesi dell’Asia a smetterla di guardare ad Occidente e di puntare i loro occhi a Oriente: verso il Giappone. Bisognava imitare il modello giapponese e non quello americano: nel primo convivevano “tradizione” e modernismo, il secondo era essenzialmente sovversivo e materialistico.
Nel 1986 Maasai Imai coniava la composizione di due termini “Kai” (cambiamento) e “Zen” (migliore) per simboleggiare la “filosofia” ad una tempo ultra-modernista e profondamente reazionaria che era alla base dell’incredibile ascesa nipponica. Ascesa che, in relazione alla qualità della vita, lasciava ben alle spalle quell’Occidente che, preso di contropiede, accusava i nipponici di saper solo copiare. Mentre, come mostravano il “toyotismo” di Taiichi Ono e la qualità produttivistica che il Sol Levante esportava, il sistema nipponico era in buona parte dei casi migliorativo, più efficiente e più equilibrato del fanatismo gigantista americanistico-occidentale. Peraltro, il secondo pilastro del toyotismo era fondato sulla pratica dell’autoattivazione (jidoka) nel tentativo di identificare armonicamente il lavoratore con le sue mansioni, correggendo a opera in corso eventuali errori fermando se necessario la catena di montaggio. Come sosteneva correttamente G. Henshall (Storia del Giappone, Milano 2016, pag. 289) gli storici punti di forza del costante “evoluzionismo nipponico” sono rappresentati da un pragmatismo flessibile, da un rispetto per l’apprendimento e per l’altrui successo (dato che il Giappone è un paese realmente meritocratico), da un acceso nazionalismo, da una valorizzazione della forza della comunità, da un’accettazione dell’autorità, della gerarchia e delle differenze fra individui.
Il popolo del Sol Levante sembrava incamminarsi solitario, oltre gli altri popoli della terra, nella via eroica indicata da Martin Heidegger: la volontà di penetrare nell’autentica essenza della tecnica, senza timore di sperimentare il sostanziale nichilismo dell’essere dimenticato. La tecnica non come abominio della desolazione, ma rivelazione tremenda della decisione a cui l’esistenza è chiamata, senza illusione alcuna che il pensiero calcolante della ragione tecnologica possa risolvere tutti i problemi. In parte, il popolo coreano - nonostante le annose questioni antigiapponesi - seguiva questo modello. Riguardo l’evoluzione della Corea nazionale, occorre non affidarsi alla cattiva informazione della sinistra occidentale che ci descriveva come “colonia Usa” un paese nel quale si susseguivano attentati e colpi di stato, tentati o riusciti, targati Cia al legittimo presidente Park Chung Hee. Era la Costituzione Yushin, che seguiva l’esempio della rivoluzione Meiji, a preoccupare talune sfere strategiche dell’americanismo.
Stesso dicasi dell’esperienza della Singapore di Lee Kuan Yew: che, facevano sapere i suoi consiglieri del britannico Bnp, traeva fonte di ispirazione dalla socialità italiana degli anni ‘30 nel suo riuscito tentativo di integrare la priorità dei valori asiatici confuciani nel contesto di una radicale modernizzazione, a tratti anche “futuristica”, al di là della logica imposta dall’Occidente, comunista o supercapitalista. E lo stesso si potrebbe dire della Malesia di M. Mahatir.
Nel 1998 un film di Shunya Ito, tradotto nelle lingue occidentali: L’orgoglio, ma scorrettamente, dato che forse era preferibile usare l’immagine: L’Armonia, suscitava molto entusiasmo in Patria, ma forti polemiche in Cina ed in Usa: era una totale riabilitazione del generale Tojo e una piena condanna del metodo usato dal procuratore capo del processo di Tokyo, il famoso Keenan.
Shigeo Tsuru, noto intellettuale, totale oppositore del sistema del Fascismo imperiale, nelle sue opere successive alla guerra mondiale rappresentava però la fazione Tojo come una forza centrale e irriducibile nello sviluppo dell’indipendenza nipponica e della equilibrata modernizzazione del paese.
Il 9 aprile ‘99 Shintanaro Ishihara, noto scrittore amico di Mishima e nipponista della destra radicale, vinceva le elezioni per la carica di governatore di Tokyo, con una campagna marcatamente antiamericana ed anche anticinese; nel 1995 aveva già pubblicato un saggio con il premier malese Mohamed Mahatir: “L’Asia che può dire no”. Il premier malese era un noto sostenitore della causa palestinese che aveva chiuso ogni canale diplomatico con Israele, al punto da vietare agli israeliani anche viaggi turistici in Malesia. Shintanaro considerava la missione di Tojo Hideki e della sua fazione innovatrice, “la coscienza matura del nostro Giappone nella sua profonda dimensione asiatica”.
Nel 2011, ancora una volta, gli Dèi donavano - tra i popoli della terra - al popolo giapponese il privilegio di recarsi là, nella linea ignota della massima “prova”, quella della morte, della distruzione e del terrore ed oltre quella linea ignota dove nessuno amava recarsi: durante i tragici eventi del terremoto e dello tsunami, noti come il “Disastro della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi”, risaltavano ancora una volta di fronte al mondo le qualità straordinarie dei nipponici e la loro perdurante vitalità spirituale.
Durante e dopo una catastrofe di proporzioni tali che la Banca mondiale velocemente classificava come “il disastro naturale più costoso e tragico della storia”, tutto il mondo poteva ammirare la loro capacità di sopportare in silenzio, la volontà di reagire con ancor più radicalità e forza ad una così grande avversità. Per sottolineare quanto è difficile per un occidentale comprendere l’anima nipponica, andrebbe sottolineato che le varie famiglie della Yakuza - secondo testimonianze certe che ormai compaiono anche in resoconti occidentali - avrebbero fornito, e continuato a fornire ad anni di distanza, “aiuti di entità incalcolabile” ai fratelli nipponici colpiti dalla tragedia. Si faccia il confronto con quanto avviene in Occidente dopo eventi simili, quando dopo i primi momenti di effimera emozione tutto svapora nel migliore dei casi nel dimenticatoio.
Però, quel “serpente verde” che Mishima evocava negli ultimi giorni di vita come tentazione permanente dello spirito nipponico, tornava a scuotere un paese sotto certi aspetti distratto ed annebbiato: “Il Giappone è sotto la maledizione del serpente verde… se perderemo, si avvicinerà la fine del mondo (sekai no owari)….” (04 ottobre 1970).
Sarà stato un “caso”- per chi ritiene possa esistere il “caso”- ma alcuni influenti consiglieri “pacifisti” del ministero della Difesa, molto attivi nel movimento dell’istruzione, avevano promosso dalla fine del 2010 un’ossessiva iniziativa pubblica mediante la quale si puntava a cambiare i libri di testo, a loro avviso troppo incentrati su un culto patriottico della guerra di liberazione del ‘37-‘45 come Evento centrale del secolo ventesimo, con annessa, silenziosa compiacenza del Fascismo europeo.
Dopo la tragedia di Fukushima, effettivamente, non si parlava più di quell’iniziativa volta in realtà a soddisfare le brame materialiste e l’arroganza imperialista delle due superpotenze della nuova fase strategica, ovvero Cina e Usa.
Immediatamente la corrente sottile del nipponismo tornava ad operare nella prima linea mondiale, affrontando direttamente le fisime occidentaliste della democrazia a buon mercato, del pacifismo americanizzato e della nippofobia.
Shinzo Abe, dopo il 2006, tornava finalmente alla guida.
Se era vero l’aforisma del filosofo presocratico, per il quale il vero spirito si poteva provare solo in guerra o durante una grande tragedia, si doveva allora concludere che no, “il Giappone non era morto”; ma era anche moralmente ben più vivo e dritto degli altri popoli.
Nel 2014, Henry Kissinger, la cui scarsa predisposizione verso la cultura nipponica pareva spesso degenerare in sentimento antigiapponese, riconosceva nella “summa” di una vita di studio e pratica (H. Kissinger, World Order: Reflections on the Character of Nations and the corse of History, The Penguin Press) che il futuro avrebbe potuto vedere nella sfida globale tra Cina e Usa la centralità strategica nipponica. La centralità di un paese che aveva saputo appunto adeguare la sua sicurezza tradizionale, la propria essenza e cultura rispetto ad ogni nuova prova che la storia gli portava o “scaraventava” incontro.
La centralità dunque di quel Giappone imperiale, che dagli anni ‘50 del secolo scorso, saggiamente non si disfaceva della classe dirigente innovatrice fascista degli anni ‘30, a differenza di quanto era stato fatto in Italia. Ma anzi continuava a utilizzarla nella prima linea della difesa del paese.
Nel corso di una storica visita al tempio Yasukuni (26 dicembre 2013) l’attuale premier del Giappone, Shinzo Abe, sosteneva che l’unica colpa di Tojo era stata quella di esser giudicato nel processo di Tokyo e ciò aveva completamente falsificato il nobile motivo che ispirava il suo agire.
Le proteste americane erano ancora una volta furiose come ogni qualvolta quel nome usciva da quel freddo, anonimo limbo in cui lo si era voluto confinare.
Shinzo Abe era però, ed è, il premier di una nazione comunque sovrana, socialmente ben più avanzata di Usa e Cina, dunque aveva i suoi buoni motivi per non sottostare ai diktat americani.
Per confermare tale concetto, il 26 maggio 2016 Abe accoglieva i cosiddetti leader mondiali arrivati in Giappone al G7 nell’area di Ise-Shima. Imponeva dunque loro di inchinarsi al Grande santuario di Ise Jingu, il luogo più sacro della Tradizione solare shintoista. I giornali americani parlavano ancora di shintoismo di stato, di riscossa scintoista e del sottile neofascismo del premier Abe. Si susseguivano comunque in Occidente articoli dal taglio mendace e ostile verso l’esecutivo Abe: da quelli della stampa tedesca, anglosassone e australiana che, senza conoscere la logica occulta dei riti del sacrificio in onore delle anime di gruppo animali, sollevavano talune questioni capziose riguardo il rapporto del cittadino nipponico con talune specie animali, ad altri della stampa italiana in cui si condannava la severa politica in materia di immigrazione, che invece si auspicava dato il bilancio demografico negativo…
Ciò nonostante, il Giappone non sembrava un paese in crisi ma pareva avanzare o comunque reggere il pesantissimo urto del confronto strategico con superpotenze quali Cina ed Usa, visto che solo con queste si può relazionare.
Era quasi sicuramente la saggia leadership di Abe, in un contesto internazionale pieno di agguati nascosti e di tragiche sorprese, a preservare il Giappone da attacchi ed aggressioni strategiche. Molti analisti internazionali (anche critici americani solitamente ostili all’esecutivo del Nuovo Giappone) paragonavano il piglio e il decisionismo di Abe a quello di Tanaka, il più grande statista del Giappone del dopoguerra.
Polemiche durissime, soprattutto nell’ambito del think tank del CFR, suscitava la presenza nel consiglio strategico di Abe del suo “angelo nero”, Tomomi Inada.
Proprio quest’ultima, attuale Ministro della Difesa del Sol Levante, nel corso di un’intervista rilasciata a un quotidiano coreano, definiva il generale il vero eroe dell’Asia moderna, avvertendo cinesi ed americani che non avevano il diritto di interferire quotidianamente nella storia nipponica. Ad una rivista americana che le chiedeva, anni fa, se era vero fosse antiamericanista, rispondeva pacata: “Sono giapponese, amo la mia Patria…”…
Il 15 agosto 2016, un flusso ininterrotto di decine e decine di migliaia di famiglie giapponesi, di giovani ed anche di qualche anziano reduce della guerra della liberazione dell’Asia, si recava con raccoglimento e devozione al santuario Yasukuni. Presenti alle cerimonie esponenti dell’esecutivo Abe.
Il primo ministro Shinzo Abe ricordava invece e commemorava i caduti della guerra alla presenza delle Loro maestà l’Imperatore Heisei (Pace Ovunque) e l’imperatrice del Sol Levante al Cimitero nazionale Chidorigafuchi nei pressi del Palazzo imperiale.
Ciò che Tojo aveva previsto pochi istanti prima della morte non era andato a svanire in crepuscolare sogno.
Sarebbe stato questo secolo, successivo al suo tragico ‘900 - già dalla quasi totalità della storiografia, compresa quella angloamericana, identificato come il secolo dell’Asia, soprattutto grazie al Giappone - a testimoniarlo o meno di fronte alla storia.
Il Giappone era comunque in piedi tra le generali rovine, a ridosso delle due superpotenze del pianeta: Usa e Cina.
La condanna a morte per impiccagione del fascista imperiale Tojo Hideki allontanava sempre più da sé l’ombra funerea del lutto, la terranea prepotenza del gesto che mirava a scindere in vari pezzi frammentati e velenosi la cosmica Armonia, sempre risorgente tra vita e morte, Essere e Nulla.
La sua misteriosa immagine, di uomo caduto, forse anche sconfitto, ma di certo invitto evocava sempre di più una primavera dell’anima, ossia una pura potenza dell’Io nello spirito del Tutto; era la purezza rutilante del Crisantemo che, come nel regno di Arjuna e Krishna, continuamente, senza posa, moriva per poi rinascere sino all’ultimo dei giorni.